Cuori spezzati, glitter, un collage. È la copertina del nuovo album di Giorgieness, uscito il 1 novembre. La nuova “fatica musicale” della cantautrice e produttrice riflette la sua crescita e riflette anche sulla violenza di genere.
Perché il nome d’arte “Giorgieness”?
“Era il mio nome su Netblog tantissimi anni fa, avevo circa 16 anni. Quando ho messo di suonare con le band che avevo cercavo un nome da mettere sul cartellone ed ebbi questa idea: è una crasi tra Giorgia e Mike Ness dei Social Distorsion”.
Come è nato “Giorgieness e i cuori infranti”?
“Dopo “Mostri” credo di aver iniziato a lavorare tanto sul sound e su quello che avrei voluto dire. Questo album ha avuto una genesi lunga, ci sono voluti quasi due anni e sono riuscita a mettere insieme diverse cose: una parte più leggera, quella sana frustrazione che si prova quando le relazioni non funzionano, ma anche una parte più profonda, come il rapporto con se stessi, il rapporto con l’altro, la violenza di genere, il riprendersi se stesse, lo scoprire di avere dei simili”.
Perché ha fatto questa particolare scelta estetica per la copertina dell’album?
“La copertina dell’album segue l’estetica di quando ero adolescente io, quindi dei primi anni 2000. Quando cresci molto velocemente ti rendi conto di esserti persa qualcosa: mi piaceva di mettere in questo modo questa parte più leggera. Inoltre una copertina simile racconta bene l’inganno che può essere questo album”.
Perché il titolo “Giorgieness e i cuori infranti”?
“Due anni fa stava spopolando l’idea di avere qualcosa fuori dal social: era una buona idea anche per me, visto che molte delle mie canzoni sono “tristone”. Ho aperto questa chat su Telegram “Giorgieness e i cuori infranti” sotto Natale, è cresciuta ed è diventata una community, dove le persone si confrontano e si confidano. Mi ha fatto vedere che ci sono tante persone come me. C’è una connessione spontanea, solidale e dunque mi è sembrato il giusto titolo da dare ad un album che parla di questi temi. C’erano tante idee, ma con i produttori alla fine abbiamo scelto questo”. Come ha visto cambiare il mondo della musica per le donne rispetto a quando ha iniziato?
“Ora è totalmente diverso, quando ho cominciato io eravamo molte meno. Sono molto felice, sotto quel punto di vista sta cambiando davvero qualcosa, ci stiamo andando a prendere degli spazi, ma io e altre persone portavamo avanti questo discorso già una decina di anni fa. Manca ancora lo spazio per un cantautorato femminile”.
Perché un’artista donna è sempre una cantante e mai una cantautrice?
“Bisognerebbe chiederlo ai discografici, fatico a capire perché non si crede nei progetti di artiste che sono in circolo da anni e hanno già dimostrato. Si preferisce investire nel fenomeno che dura un anno: nella discografia manca la consapevolezza che siamo persone, quando sei giovane rischi di farti male se le cose non vanno. È un problema generale di un certo tipo di musica, che poi si estende sulle donne: siamo il fanalino di coda di tutto”.
Ultimamente poi, si è parlato tanto di salute mentale nel mondo della musica...
“È un tema importante, è complesso parlarne, bisogna far capire che una persona non si sta lamentando sul singolo caso, abbiamo perso un sacco di musicisti e continuiamo a perderne. Spesso ci sentiamo dire: “Non stai lavorando in miniera”, quando in realtà si fanno tanti sacrifici e tante rinunce, si vive con poco. Ora poi anche il concetto di album è superato… credo che sia un tema di cui non si parla abbastanza”.
In “Giorgieness e i cuori infranti” si parla anche di violenza di genere in canzoni come “Piano Piano” e “Non una di meno”...
“È un discorso che ho cominciato in “Siamo tutti stanchi” in un album che si chiama “Controllo”: la musica deve sempre mantenere l’attenzione alta, nelle relazioni tossiche è complesso trovare la motivazione e il coraggio di uscirne, spesso ci si porta dietro dei figli, l’indipendenza economica... È complesso vedere la luce in fondo al tunnel, ma c’è modo di uscirne, prendendone consapevolezza, mi riconosco tanto in una frase che ho scritto che è: “riuscirai a farmi sembrare pazza, chiediti perché succede solo con te”. “ Piano piano” dunque parla del riprendersi se stesse. “Non una di meno” invece parla di quando capisci che sei sola a mandare avanti una relazione parlando di dipendenza affettiva. Gli ultimi anni di terapia mi hanno aiutata a parlare di questi argomenti, spero che queste canzoni possano sembrare come un abbraccio a chi sta vivendo queste situazioni”.
In “Brava” parla di come ci si sente dopo essersi messi da parte…
““Brava” è un post che ho fatto su Instagram e che continua a girare: parla di tutte quelle volte che ci ridimensioniamo per una persona, è un tema sentito non solo da me ma anche da tante altre persone. Ci tengo a dire però che non tutte le relazioni che vanno male sono per forza tossiche, a volte uno è semplicemente stronzo”.