E’ forse una delle ‘tegole’ più terribili che senza preavviso e in assenza di una ragione specifica possono abbattersi su un musicista nel pieno della sua carriera. Una fatalità, almeno temporaneamente invalidante, che rischia di compromettere in modo serio la vita professionale di un concertista. Si chiama 'distonia focale’, detta anche crampo del musicista, che si presenta come un difetto di controllo motorio dei gesti complessi e ha origine in zone poco esplorate del cervello. A esserne colpito è da qualche anno il giovane e talentuosissimo Giovanni Nesi, pianista pratese di notorietà internazionale e diventato famoso grazie alla suggestiva trasposizione per pianoforte con cui ha reso onore alla memoria del grande clavicembalista Giandomenico Zipoli.
Le prestigiose registrazioni e i numerosi concerti eseguiti in molte parti del mondo gli hanno valso plauso della critica e aperti consensi da parte del pubblico. Da qualche tempo Nesi, campione di resilienza e ottimista per natura sta lottando contro questa assurda patologia senza darsi per vinto e anzi continuando a suonare con l’impiego della sola mano sinistra, imitando soprattutto gli esempi di illustri maestri del passato come Ravel, Scriabin e Brahms, famoso per aver trascritto proprio per la sinistra una magnifica versione della "Ciaccona" di Bach. Così, senza perdersi d’animo, ha dato vita a esecuzioni eccellenti registrando proprio un disco in omaggio a Bach per mano sinistra negli studi londinesi di Heritage. In casi come questo il percorso di riabilitazione è lungo, altalenante e assai faticoso, ma Nesi è un giovane uomo dal carattere solare, dal sorriso contagioso e che si fa subito apprezzare non solo per le sue doti di autentico virtuoso del pianoforte, ma anche per la freschezza del carattere e una pronunciata apertura nei confronti del prossimo, una natura empatica che certamente riesce a sostenerlo e confortarlo in questa sua battaglia che è sicuro di vincere. Nel frattempo ha in programma concerti per mano sinistra in Toscana e in Sicilia, uno a settembre nel Chiostro del Museo Novecento a Firenze e a Messina nel mese di dicembre nei locali del Palacultura Antonello.
Giovanni, quando ha saputo di questa sua malattia? "Quando le hanno dato un nome: distonia focale. Prima non ne conoscevo neppure l’esistenza. Dopo aver brancolato a lungo nel buio, in preda a sintomi indecifrabili, alla fine a Firenze è arrivata la diagnosi, confermata anche da un centro specializzato di Barcellona tra i migliori al mondo. Sono così venuto a sapere che si tratta di una patologia di origine neurologica a causa della quale il cervello si rifiuta di coordinare tutta una serie di movimenti raffinati e automatici che negli anni erano diventati il mio patrimonio. Quindi, questo deficit si traduce nell’impossibilità di eseguire in modo perfetto certi gesti indispensabili per chi suona il pianoforte, cosa che vale anche nel caso di professioni in cui si esige la massima precisione, come per esempio nell’arte orafa, o per chi deve scrivere velocemente al computer. Insomma si viene a perdere quella coordinazione che il cervello ha sviluppato in tanti anni di esercizio. Sulle cause di questo disturbo probabilmente legato a un deficit dei neurotrasmettitori non ci sono certezze assolute, anche se secondo alcuni studi non sarebbero estranei fattori genetici: fatto sta che il problema coinvolge almeno il 5% dei musicisti. Una cifra certamente sottostimata perché sono in molti a ignorare di soffrire della distonia focale, senza contare i tanti che per comprensibile pudore tengono nascosto questo fastidioso inconveniente".
Non può esistere in tutto questo una componente di tipo psicologico? "Certamente. Non a caso la sindrome si presenta più frequentemente tra i trenta e i quarant’anni, epoca in cui si chiede a se stessi il massimo e si entra in una sorta di competizione con il proprio stesso ruolo, si pretende sempre il massimo. Si tratta di un tipo di stress particolare che gli esperti definiscono appunto ‘task specific’. La frenesia nel portare avanti ritmi sempre più alti di lavoro, il sovraccarico spesso eccessivo di impegni possono causare un crack, una specie di corto circuito tra quelli che sono i nostri limiti intrinseci di esseri umani e il desiderio di volerli superare a tutti i costi. Insomma i fattori sono tanti e complessi che, purtroppo, sommati assieme hanno portato alla catastrofe.” A quanto pare è un malanno che colpisce proprio la mano destra. Perché? "Nella stragrande maggioranza dei casi viene colpita proprio la cosiddetta ‘mano dominante’, governata da una interessante e misteriosa zona del cervello chiamata ipotalamo. Naturalmente per chi usa invece abitualmente la sinistra accade il contrario, perché a quella è affidato il ruolo principale. Infatti nel caso dei violinisti il problema capita alla mano sinistra, mentre per i chitarristi a quella con cui pizzicano le corde. In poche parole un musicista viene fregato proprio nel suo migliore punto di forza. Una strana nemesi orchestrata dalla nostra mente".
Sembra proprio che non sia stata una diagnosi facile… "Inizialmente l’avevano scambiata per una sindrome da ‘over use’, poi si è parlato di compressione dei nervi, eppure nessuna radiografia evidenziava lesioni di qualche genere. Personalmente non sono mai stato convinto di queste ipotesi, soprattutto per il fatto che non avvertivo nessun tipo di dolore. Fu la telefonata provvidenziale di un amico messicano, pianista pure lui, a rivelarsi determinante: 'Cabròn' – mi disse preoccupatissimo – 'vai subito a farti vedere a Barcellona, il tuo non è un problema delle dita, ma di testa!'. Presi la sua raccomandazione come un monito del destino e cinque giorni dopo ero in Spagna per ascoltare il verdetto di quella equipe di esperti. La diagnosi fu come immaginavo senza appello: distonia focale. Ma la bella notizia fu che ne sarei potuto uscire fuori. Con tanta pazienza, a forza di estenuanti esercizi ma anche con la consapevolezza che a una apparente remissione sarebbe potuta seguire una ricaduta". C’erano stati segnali premonitori prima che la malattia diventasse conclamata? "Sì, per la verità. Un leggero senso di affaticamento che si presentava però soltanto in determinati movimenti di maggiore impegno tecnico e che richiedevano una notevole coordinazione delle dita, con particolare interessamento del pollice. Tuttavia l’esecuzione non era minimamente compromessa da questa mia sensazione, che avevo perciò liquidato come cosa di poco conto. Se fossi stato a conoscenza del problema certamente mi sarei fermato in tempo evitando il peggio, che purtroppo è arrivato. La bella notizia è che per fortuna, rispetto a cinquant’anni fa, le soluzioni non mancano, ma resta il fatto che la batosta presa è stata forte, eccome". E’ forse quanto di peggio possa capitare a un musicista? "Beh, diciamo che non è una cosa tragica come l’amputazione di un arto. Mi viene in mente Paul Wittgenstein, il pianista per cui Ravel aveva scritto un pezzo adatto alla mano sinistra dopo che aveva perso in guerra il braccio destro. Un grande concertista di notevole sensibilità che sarebbe diventato celebre anche per essere committente di tante opere eseguite solo con la sinistra. Va detto però che pur non soffrendo di una disgrazia di quella portata ho subito ugualmente un colpo difficile da assorbire: all’apparenza sembra andare tutto bene, invece un brutto giorno scatta qualcosa nella cabina di regia che manda tutto all’aria. All’improvviso cose che fino a qualche giorno prima suonavi benissimo, riesci solo a balbettarle: non è una sensazione piacevole. Sgomento, rabbia, depressione. Eppure sono un ottimista per natura e solo grazie alla mia tenacia ho fatto quei progressi decisivi che devono farmi centrare l’obiettivo della perfetta guarigione".
In cosa consiste il programma di riabilitazione della clinica di Barcellona? "Si tratta di un complicato processo di rieducazione neurosensoriale motoria che giorno dopo giorno mette di nuovo il cervello nelle condizioni di ritrovare il meccanismo ‘inconscio’ delle soluzioni, mediante una vera e propria risintonizzazione cerebrale. Per ottenere questo si usano dei tutori finalizzati a immobilizzare certe dita con varie combinazioni mentre si sta suonando. Simultaneamente si è chiamati a impegnare la mente con calcoli matematici o suonare su superfici diverse dalla normale tastiera. Insomma tutta una serie di espedienti per convincere il cervello recalcitrante come un cavallo imbizzarrito a fare il suo dovere di sempre. Cosa che comporta tempo, infinita pazienza e una serie di esercizi faticosi e di una noia mortale. Basti pensare che ogni mattina dedico un paio d’ore a questo genere di terapia ma lo faccio con estrema fiducia, quasi con entusiasmo, con la convinzione di averla presto vinta". Eppure lo scorso anno sembrava essersi tutto risolto in modo definitivo... "In realtà era quello che credevo anch’io, dimenticando gli avvertimenti della dottoressa catalana sulla possibilità neppure tanto remota di ricadute. Un bel giorno d’estate di un anno fa scoprii con immensa gioia di poter suonare di tutto con disinvoltura, esattamente come prima che mi colpisse questo disturbo. Al settimo cielo e già pronto a programmare future stagioni concertistiche cantavo vittoria e nello stesso tempo avevo smesso la tediosa routine degli esercizi. Fu l’errore più grande della mia vita, infatti dopo poco la mia condizione precipitò di nuovo gettandomi una volta di più nello sconforto".
Così la sua attività pianistica continua a soffrirne… "Non direi. Per fortuna la produzione destinata a esecuzioni per mano sinistra sono almeno un migliaio e posso sbizzarrirmi in un repertorio vastissimo che va dal romanticismo a i contemporanei. In particolare suonare Bach con le trascrizioni di Brahms mi ha permesso di esibirmi 'live' e di registrare un disco. Tutte iniziative salutate dal pubblico con grande favore e un certo stupore di fronte all’illusione tecnica che fa credere a brani eseguiti con due mani. Quindi proprio nei momenti più difficili occorre rispondere alle sfide ‘impossibili’ che la vita infligge con la massima determinazione". Esempi illustri di pianisti colpiti dalla distonia focale? "Certo, a cominciare da Robert Schumann che tra l’altro ho incluso nei miei programmi concertistici. Uno studio condotto da un gruppo di Hannover sulla base delle lettere e dei diari del musicista ha potuto dedurre dalla descrizione dei sintomi la presenza inequivocabile della malattia, all’epoca era del tutto sconosciuta. Il pianista avvilito e incapace di trovare una soluzione smise di suonare ad appena trent’anni. Avrebbe voluto diventare un virtuoso del pianoforte, ma dovette abbandonare quell’idea e dedicarsi alla composizione: scelta obbligata che ha regalato all’umanità veri capolavori. Ma anche lo stesso Gary Graffman, maestro di Lang Lang, è stato affetto da identica patologia, come pure Leon Fleisher. Entrambi costretti a dedicarsi all’insegnamento o alla direzione d’orchestra, ovviamente ai più alti livelli immaginabili. Erano però altri tempi in cui le cause della sindrome erano avvolte in una nebbia impenetrabile". Voi pianisti siete come gli atleti: non vi accontentate mai e puntate sempre più in alto nel tentativo di superarvi costantemente... "Verissimo. Fa parte della nostra struttura mentale, di una costante cura del dettaglio, della ricerca di una sfumatura che all’orecchio comune può sembrare insignificante. Una esistenza votata al culto del perfezionismo che come per ogni forma di devozione assoluta non può essere immune totalmente da rischi. E’ una passione in nome della quale si osa sempre di più ignorando come ciò che fino a quel momento ti ha nutrito può all’improvviso annientarti. Sto apprendendo una lezione di vita, faticosa e interessante nel contempo. Avvilente e esaltante perché mette in moto tutte quelle risorse che mi impediscono di arrendermi. So che la meta è vicina e che il concerto con cui saluterò la mia perfetta condizione sarà il più bello, il più entusiasmante ed emozionante della mia vita. Siete già tutti invitati".