
Foto di Emiliano Vittoriosi
Il pensiero e la pratica femminile come strumento per cambiare in meglio le nostre città. Le donne come vertice e motore di una trasformazione degli spazi urbani che ridisegni il nostro modo di abitare e frequentare i luoghi della nostra vita quotidiana. È questa l’ambizione che muove l’urbanistica inclusiva, altresì detta ‘urbanistica di genere’. In occasione della Giornata internazionale della donna abbiamo intervistato la professoressa Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della scuola di economia civile.
“Le donne – dice – in forme varie e sempre eclettiche, hanno maturato un pensiero pratico sulla città che oggi non possiamo trascurare e di cui peraltro loro stesse non sono ancora pienamente consapevoli. Oggi che dobbiamo ripensare la relazione tra spazi e vita, tra tempi quotidiani e aspettative di benessere, tra natura e città, la prospettiva da cui guardano il mondo appare cruciale”.
Nel suo libro “il senso delle donne per la città” le sostiene la necessità di adottare una protettiva di genere nella valutazione e nella progettazione degli interventi urbanistici. Perché?
“Il libro è all’apparenza complesso ma dice cose molto semplici. Le donne hanno le chiavi della città, e le hanno perché la usano e vivono ‘concretamente nei bisogni di tutti i giorni: camminando per strada, andando ad accompagnare i figli a scuola, andando a fare la spesa, salendo sull’autobus, sul tram scendendo nelle metropolitane. Le donne fanno un uso intenso e complesso della città, più degli uomini, perché più degli uomini devono conciliare il tempo vita con quello del lavoro, a causa del carico di cura familiare e domestico che spesso ricade sulle loro spalle. E per questo sono competenti su come debba essere cambiata la città per renderla migliore per tutti. Le chiavi vengono dalla loro esperienza che è un’esperienza pratica”.
Concretamente cosa dovrebbero fare gli amministratori per utilizzare questa competenza, tenendo conto della complessità della materia e del fatto che sull’uso della città convergono molti interessi diversi e tanti di tipo economico-finanziario, legati ovviamente al profitto?
“La città per come l’abbiamo costruita dall’Ottocento in poi, e per tutto il Novecento, è una macchina per funzionare. Basata sulla velocità, sulla prevalenza dell’automobile sulle attività dell’uomo immaginata per un tipo umano che è maschio, adulto, motorizzato, che va al lavoro e torna a casa dal lavoro. Ma le città sono abitate anche da altri soggetti: bambini, ragazzi, anziani, disabili, donne. Allora un amministratore accorto, che voglia restituire ai cittadini una città più adatta ai loro bisogni, ascolta, coinvolge, fa proprio lo sguardo delle donne che parte invece dalla quotidianità, dal corpo, dall’uso della città. Immaginiamo una mamma che si muove in strada con un passeggino: questa donna fa una esperienza diretta, concreta, delle cose che funzionano o non funzionano. Di come è difficile salire su un autobus se hai bambini piccoli, e di come sia necessario costruire spazi e dimensioni alla portata di tutti. Questo infatti non vuol dire costruire una città a misura di domma, ma una città che tenga conto dei bisogni di tutti. E di come potrebbero essere trasformati i dettagli dello spazio urbano. Lo sguardo delle donne consente di umanizzare gli spazi urbani perché siano più adatti a tutti: anziani, donne migranti bambini, disabili. Pensiamo ai bambini che oggi non possono muoversi nello spazio pubblico perché non è adatto a loro ed è irto di pericoli. E non a caso cresce sempre di più l’età in cui li lasciamo soli. A Tokyo, per dire, i bambini a 6 anni vanno a scuola da soli. In Italia non accade prima dei 10 anni perché è ritenuto pericoloso”.
Esistono degli esempi positivi in questo senso?
“Nel contesto italiano oggi si sta affermando una certa curiosità verso il tema di come rendere lo spazio urbano più sicuro per le donne, come trasformare le stazioni ad esempio, che sono sempre spazi problematici, in luoghi confortevoli adatti a tutti, agli uomini, alle donne, ai bambini. Quando però vogliamo vedere degli esempi compiuti, dobbiamo andare all’estero. Soprattutto a Vienna che è un po’ la capitale dell’integrazione dello sguardo femminile nella progettazione urbanistica. Lì ci rendiamo contro che questo è oramai nella prassi quotidiana dell’organizzazione e della pianificazione del progetto urbano. Ad esempio o progettare uno spazio pubblico adatto alle teen agers, alle giovanissime, perché possiamo continuare a fare sport all’aperto. È qualcosa che è dentro le routine. In Italia è ancora un’eccezione . Ci sono città che sono più avanti, come Bologna o Parma, ma in generale siamo all’anno zero o quasi. Tuttavia le cose possano cambiare, anche in fretta”.
Oggi si riscontra molta attenzione nei confronti di tematiche ‘di genere’. Non avverte il rischio di una strumentalizzazione del tema, di quello che viene chiamato pink washing?
“Si certo. Il rischio è molto alto. Direi che in questo momento c’è un tentativo ad esempio di limitare la questione dell’uso dello spazio da parte delle donne nelle città solo come una questione di sicurezza: poter tornare a casa di sera da sola. Ma quei si tratta di ribaltare l’agenda politica. Che spazio ha ad esempio l’abitare? Lo spazio del gioco? La partecipazione alle decisioni pubbliche? È più facile costruire una piccola arena per dare un contentino alle donne piuttosto che assumere la radicalità della prospettiva femminile che dovrebbe portare a sovvertire l’agenda politica e non ad aggiungere un postilla ‘di genere’. Non ce ne facciamo nulla davvero. O peggio ancora riassumere tutto nel ridare il nome alle vie per intitolarle a donne: certo è una cosa importante, ma ne farei volentieri a meno in cambio di avere più mezzi pubblici, più spazi verdi secondo la regola dei 3-30-300. Ci sono dei principi che portano le donne nel dibattito pubblico che non sono principi validi solo per le donne, ma dei presupposti per la buona progettazione degli spazi urbani. E dunque valgono per tutti. Temo molto che invece si punti a costruire una specie di ‘riserva indiana’, a fare cioè qualche piccola iniziativa celebrativa o a favore delle donne, ma non cambiare un assetto di fondo che in questo momento fa vivere scomodi uomini e donne”.
Gli architetti, gli urbanisti sono preparato a questa svolta?
“Il problema è a monte. Se durante il proprio corso di studi gli architetti e le architette non incontrano mai una donna, una progettazione fatta da una donna, come possono alfabetizzarsi al punto di vista femminile? Andrebbero dunque riscritti i manuali, andrebbero fatte conoscere la architette e non solo gli architetti. Ed è quello che stiamo cercando di fare. E questo non solo per una mera questione di parità, ma per alfabetizzarci ad un modo di fare architettura più inclusivo più
aperto, più sostenibile. Che riconosce il valore della prospettiva femminile. Il monito che mando attraverso il mio libro è proprio che dovremmo riscrivere i programmi di alfabetizzazione all’architettura perché il pensiero delle donne è qualcosa di fondamentale per formare architetti ed architette più attenti ai bisogni reali delle persone”.