
In Italia le lavoratrici domestiche rappresentano oltre il 66% della categoria, sono più di 750 mila
Maria non vuole rivelarci il suo vero nome, preferisce che la sua storia rimanga segreta, nascosta nell’ombra di chi, ogni giorno, dona il proprio tempo al paese senza ottenere la giusta riconoscenza. Sono donne invisibili, sempre presenti e pronte a sacrificare la loro intera vita per gli altri, anche se molto spesso non vengono remunerate adeguatamente per ciò che fanno. È arrivata in Italia per la prima volta nel 1998, dopo la morte di suo padre, nel tentativo di racimolare il denaro necessario a riparare gli strumenti per lavorare la terra che giacevano rotti nei capannoni della propria famiglia, in Ucraina. Da quel momento, Maria ha esercitato molte professioni tra Mondragone, Latina e la provincia di Firenze.
C’è un filo comune nei lavori che Maria ha svolto in Italia: turni interminabili, salari bassi e condizioni spesso lesive dei diritti inalienabili delle lavoratrici: “Vivevo con una famiglia di Caserta, mi occupavo di pulizie in una casa a tre piani. La signora era molto cattiva con me, spesso non mi dava da mangiare, ho perso 10 chili lavorando lì. Quando sono andata via, mi ha perquisita per paura che stessi rubando qualcosa. Mi ha pure rovesciato la bottiglia con l’acqua che mi ero preparata per il viaggio”. Molto è cambiato negli ultimi anni, portando nuove tutele e occupazioni più stabili, ma il percorso è ancora molto lungo e tortuoso.
Nel 2013, Maria è tornata per un anno in Ucraina. Poi le proteste di piazza Maidan e l’invasione russa della Crimea e del Donbas, la situazione che si stava facendo sempre più pericolosa. Da qui la scelta di tornare, ancora una volta, in Italia, in cerca di un’occupazione stabile e di alcune rimesse da inviare alla madre, che viveva ancora nelle campagne del granaio d’Europa.
Il lavoro di badante
Sono oltre 750mila, distribuite in tutta Italia, le donne come Maria che aiutano le famiglie a prendersi cura di bambine e bambini, persone anziane o con disabilità, spesso non ricevendo in cambio una retribuzione o una considerazione adeguata nel dibattito pubblico: “Questo lavoro a volte ti toglie la libertà – spiega – non ti consente di uscire. Si hanno solo poche ore o giorni liberi al mese. Per fare questo lavoro serve cuore, solo per lo stipendio non si fa. Poi dipende tutto dai datori di lavoro, i miei sono molto bravi”, e aggiunge: “Serve tanta dolcezza, lavorare con le persone anziane è come lavorare con i bambini. Ci metto tutto il mio cuore”.
A mancare, però, sono ancora una volta le tutele per una categoria così importante per le famiglie di tutta Italia: “Il nostro lavoro merita più diritti e tutele. Molte mie conoscenti, ad esempio, lamentano stipendi un po’ troppo bassi. Il lavoro è usurante, spesso devi alzarti nel cuore della notte per controllare la persona che stai aiutando. E se sei malata, molte volte devi lavorare lo stesso, altrimenti ti mandano via accusandoti di farlo di proposito”.
Le lavoratrici pubbliche
A raccontare la sua esperienza nel settore sanitario è Isabella, operatrice socio-sanitaria (Oss): “Ho intrapreso questa professione perché ho sempre avuto una forte inclinazione ad aiutare il prossimo. Ho iniziato con corsi in una cooperativa, un contesto in cui purtroppo le donne sono ancora più vulnerabili e sfruttate”, ricorda. “Successivamente ho deciso di tentare l’ingresso nel settore pubblico, ma non è stato affatto semplice. Ho lavorato in diversi ospedali, spesso lontano da casa, e conciliare lavoro e famiglia è stato complicato. Per questo ho dovuto spostarmi più volte a malincuore, lasciando strutture in cui mi sentivo davvero a mio agio, fino ad arrivare al pronto soccorso in cui lavoro oggi, in provincia di Pisa”.
Nel suo ospedale, Isabella conta appena quattro colleghi uomini: “L’Oss è ancora percepito come un lavoro tipicamente ricoperto da donne. È una mentalità che va superata: nel 2025 l’assistenza non può essere considerata solo al femminile. Fortunatamente, in ambito infermieristico le cose stanno cambiando: vedo sempre più squadre miste di infermieri e infermiere. Nel ruolo del medico invece, persiste ancora un forte pregiudizio: nell’immaginario collettivo resta una professione maschile. Lo noto ogni giorno nel mio reparto, dove le dottoresse vengono ancora chiamate ‘signore’, mentre i medici uomini sono sempre ‘dottori’”.