Se il femminismo esclude allora non è femminismo: perché l’8 marzo deve essere intersezionale

La lezione dell’intersezionalità, un concetto nato dal femminismo nero che restituisce la complessità delle identità e quindi delle discriminazioni che ogni donna subisce

di CLARA LATORRACA
8 marzo 2025
Una manifestazione per i diritti delle donne ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, nel marzo 2020

Una manifestazione per i diritti delle donne ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, nel marzo 2020

L’8 marzo, la Giornata internazionale della donna, è (o dovrebbe essere) di tutte. Delle donne, certo. Anche di quelle donne che appartengono a categorie marginalizzate, spesso invisibilizzate e lasciate ai margini anche nella celebrazione di questa giornata: donne razzializzate, donne trans, donne lesbiche e bisessuali, donne disabili.

Il movimento femminista, che si pone al centro di questa giornata come guida per celebrare i traguardi raggiunti, ma soprattutto per manifestare e portare all’attenzione quello che ancora manca, è un movimento sfaccettato e complesso, una galassia di movimenti più piccoli che si occupano di questioni più specifiche, che in questa giornata si incontrano e si uniscono sotto lo stesso stendardo.

C’è una parola che identifica la capacità di comprendere che essere donne non ci rende tutte uguali e soggette agli stessi tipi di discriminazione e violenza: si tratta del termine “intersezionalità”. Che cosa significa e cosa implica per chi agisce in favore dei diritti di genere?

Non sono io una donna?

Nel 1851 Sojourner Truth, fuggita dalla schiavitù, tiene un discorso alla Women’s Convention di Akron, nell’Ohio. “Non sono io una donna?” chiede al pubblico della Convention. “Quell’uomo laggiù dice che una donna ha bisogno di essere aiutata a salire in carrozza e sollevata attraverso i fossi e ha bisogno di avere ovunque il posto migliore. Nessuno mi ha mai aiutata a salire in carrozza o ad attraversare pozzanghere di fango o mai mi ha dato un posto migliore”, spiega, aggiungendo: “E non sono io forse una donna?”.

Il fatto di essere una donna afroamericana escludeva Sojourner Truth dalle lotte per il diritto di voto e di partecipazione alla vita pubblica che molte attivste (bianche) stavano portando avanti in quegli anni. Ma l’attivista abolizionista partecipa comunque alla convention e prende parola davanti a tutti, rompendo al contempo due tabù: non solo una donna che parla in pubblico, ma anche una persona afroamericana che prende parola davanti a una folla in prevalenza bianca.

Quale definizione migliore di intersezionalità? Sojourner Truth è riuscita a mostrare come è possibile per la stessa persona sperimentare diversi tipi di oppressione e discriminazione. E per questo essere esclusa dai movimenti che dovrebbero agire per liberarla. Da qui, l’appello finale che la donna rivolge alla Convention: “Se la prima donna che Dio ha creato è stata forte abbastanza da capovolgere il mondo tutta sola, insieme le donne dovrebbero essere capaci di rivoltarlo ancora dalla parte giusta”. Un discorso che precorre i tempi e “può essere considerato come il testo fondativo dell’intersezionalità”, spiega Thomas Casadei sulla rivista About Gender.

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Kimberlé Crenshaw e la definizione di intersezionalità

Se da un lato lo sviluppo del concetto di intersezionalità deve molto alla storia dei movimenti femministi e antirazzisti afroamericani, che lo portano avanti, senza dargli effettivamente questo nome, già nelle lotte della fine dell’Ottocento, dall’altro il termine vero e proprio viene coniato solo all’inizio degli anni ‘90.

La sua teorizzazione è dovuta alla giurista afroamericana Kimberlé Williams Crenshaw, secondo cui la condizione di oppressione e discriminazione delle donne nere non può essere compresa considerando solamente il loro genere o il colore della loro pelle: sono infatti due categorie che si intrecciano.

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La giurista utilizza, per chiarire come forme diverse di discriminazione possano agire sulla stessa persona, la metafora dell’incrocio: “Si può fare un’analogia con il traffico di un incrocio, che viene e va in tutte e quattro le direzioni. Così, la discriminazione può scorrere nell’una e nell’altra direzione. E se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle macchine che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte. Allo stesso modo, se una donna nera si fa male a un incrocio, il suo infortunio potrebbe derivare dalla discriminazione sessuale o dalla discriminazione razziale”.

Intersezionalità e identità molteplici

Sebbene il concetto di intersezionalità viene inizialmente utilizzato soprattutto per parlare dell’intersezione, appunto, di discriminazione di genere e discriminaziona razziale, viene presto ampliato per ricomprendere altre forme di oppressione che si sommano a sessismo e razzismo.

È diventato infatti uno strumento teorico che aiuta a comprendere meglio la complessità delle identità di ognuno di noi: nessuno è solamente uomo o donna, perché a questo si aggiunge un’identità etnica (o razzializzata), ma anche una sessualità, l’appartenenza alla classe, a una religione, a una dimensione territoriale, la presenza di disabilità motorie e/o psichiche, di neurodivergenze... E da ognuna di queste identità possono o meno derivare forme diverse di discriminazione che agiscono sulla vita quotidiana, ma anche lavorativa, famigliare, pubblica.

Ad esempio, l’appartenenza a una determinata regione geografica, anche all’interno dello stesso Paese, può rappresentare la possibilità o meno di accedere a determinati servizi. Ma apre anche, purtroppo, all’eventualità di essere discriminato sulla base della propria provenienza nel momento in cui si cerca casa o un lavoro.

Se a questo si somma, ad esempio, il fatto di essere donna, o una sessualità diversa da quella eteronormata, oppure il fatto di essere una persona disabile, gli ostacoli crescono sempre di più. Per dare ulteriore concretezza: le persone migranti rimpatriate da Trump affrontano una grande tragedia nel momento in cui sono costrette a tornare in un Paese di origine che non è più la loro casa. E nel momento in cui queste persone migranti sono anche donne oppure persone omosessuali, o transessuali, è possibile che per loro questo ritorno rappresenti anche la perdita di una serie di diritti umani e l'esposizione a maggiori pericoli.