La Costituzione ci dà forza

di ETTORE MARIA COLOMBO -
8 marzo 2022
Education in Italy. Opened book and national flag on background.

Education in Italy. Opened book and national flag on background.

Donna, giovane, sarda e già affermata professoressa di Diritto pubblico comparato, che insegna all’Università di Sassari, in un mondo, quello del diritto costituzionale, dove i maschi predominano. Alla professoressa Carla Bassu non mancano l’ironia, la chiarezza, l’approccio social. Tanto che si presenta così: «Figlia, sorella, moglie e mamma devota, inseparabile dal fedele Fiji. Globe-trotter precoce e lettrice vorace, conservo e coltivo la curiosità dell’infanzia. Militante delle libertà fondamentali e appassionata sostenitrice delle battaglie per la parità di genere, aspiro a crescere mia figlia libera dagli stereotipi e consapevole che tutto si può fare». Un profilo adatto a  parlare di 8 marzo e diritti delle donne. Quali le principali conquiste nella storia dell’Italia repubblicana?

La costituzionalista sassarese Carla Bassu, 42 anni, si sta battendo per il doppio cognome: «Un modo per combattere il patriarcato»

«In Italia la piena parità di genere esiste sulla carta dal 1948, anno di entrata in vigore della nostra Costituzione, che afferma e ribadisce in più parti il principio di eguaglianza e il divieto di discriminazione nelle sfere pubblica e privata. Ma per completare, anche solo dal punto di vista formale, il percorso di parificazione si è dovuto attendere il 1975 con la riforma del diritto di famiglia. Fino ad allora la prevalenza giuridica maschile si manifestava nei tre principali ambiti della vita familiare: rapporti tra coniugi; patrimoniali e con i figli. La donna seguiva infatti la condizione civile del «capofamiglia», ne assumeva il cognome, era tenuta a seguirlo ovunque ritenesse opportuno fissare la residenza ed era soggetta al dovere di coabitazione. Il marito era gestore e responsabile del patrimonio familiare e godeva di un regime sanzionatorio privilegiato in caso di adulterio. La patria potestà era formalmente affidata a entrambi i genitori ma esercitata in via prioritaria dal padre, sostituibile dalla madre solo in caso di assenza o altro impedimento. Come corrispettivo per questi doveri di sottomissione, la donna aveva il diritto a essere mantenuta e protetta. Oggi ogni riferimento alla patria potestà è sparito eppure resta un concetto radicato nella mentalità di molti, al pari dello status di «capofamiglia», incompatibile con un assetto quale quello della famiglia che non dovrebbe ammettere gerarchie tra i componenti adulti. Purtroppo, il gap tra disciplina giuridica testuale e percezione reale ancora non è stato colmato». Quale ruolo immaginarono i padri costituenti per le donne? È superato o è ancora valido? «Soprattutto conta l’impegno delle madri costituenti, troppo spesso dimenticate, che hanno contribuito in misura sostanziale alla determinazione di una parità a tutto tondo, lottando contro la visione stereotipata e ancorata all’icona della donna-angelo del focolare, riduttiva e penalizzante, che per lungo tempo è stata alla base della marginalizzazione femminile dalla vita pubblica. Secondo la Costituzione le donne non sono soggetti deboli o minoranze da tutelare, ma protagoniste del tessuto sociale, economico e istituzionale che al pari degli uomini hanno diritto a realizzarsi e contribuire allo sviluppo della società. È una visione ancora pienamente valida che però stenta ancora ad affermarsi, a causa soprattutto di ostacoli sociali e culturali». Legge sul doppio cognome in dirittura d’arrivo. Lei ne è la madrina. Servirà davvero all’affermazione della figura della donna? «Ogni elemento discriminatorio che ancora resiste nell’ordinamento deve essere rimosso per affermare la piena parità, in coerenza con il dettato costituzionale. L’imposizione esclusiva del cognome paterno alla prole è semplicemente incompatibile con il sistema di democrazia paritaria stabilito dalla nostra Costituzione. Imponendo il cognome paterno si invia un messaggio alla società: è quello che merita di essere trasmesso e ricordato e, dunque, è quello che vale di più ma non è vero né giusto. Per molti si tratta di una tradizione innocua ma le usanze si fondano su scelte discrezionali mentre le regole giuridiche, vincolanti e valide per tutti devono essere eque. La cultura del benaltrismo è sterile e dannosa: occuparsi di problemi apparentemente minori non esclude che si affrontino anche le questioni percepite come più urgenti e gravi. Una cosa non preclude l’altra». Femminismo e diritti delle donne sono un binomio inscindibile o la teoria del gender li cambia in meglio (o in peggio)? «Femminismo e parità di genere non sono «questioni di e per donne» ma riguardano l’intera società. Allo stesso modo i diritti delle persone LGBT non dovrebbero essere una priorità solo per chi si riconosce nella «categoria». Le discriminazioni irragionevoli dovrebbero essere combattute a prescindere perché libertà e diritti sono un patrimonio collettivo, da proteggere e rivendicare a prescindere da un interesse diretto, a beneficio dell’umanità». Donne e guerra. È raro vedere donne imbracciare un’arma. Sano pacifismo o istinto materno? E che fare di fronte alla guerra? «Diffido dalle generalizzazioni e – dichiarando l’intento provocatorio – richiamo alla memoria molte immagini di donne combattenti che anche in questi drammatici giorni di guerra hanno imbracciato le armi. Più che di caratteristiche innate e connaturate al genere parlerei di un certo pragmatismo che appartiene a chi è chiamato a trovare soluzioni e a conciliare priorità e interessi diversi nella difficile gestione delle incombenze quotidiane. La guerra è un male assoluto e le abilità diplomatiche, psicologiche, di problem solving e gestione dei conflitti affinate dalla maggior parte delle donne nell’esperienza sono risorse che dovrebbero essere riconosciute e valorizzate e non sottovalutate, come troppo spesso accade».