“Crediamo che due aspetti - l'intangibilità della vita e l'accoglienza incondizionata per le persone che affrontano un dramma di così vaste dimensioni - dovrebbero trovare espressione nel linguaggio di cui si serve il legislatore, e spiace rilevare che l'atto con cui la nostra Regione introduce l'interruzione della gravidanza a domicilio è particolarmente carente da questo punto di vista”. Con queste parole l'arcidiocesi di Ferrara-Comacchio commenta la Determinazione regionale che prevede che dal primo gennaio sarà possibile, per le donne dell'Emilia-Romagna, interrompere una gravidanza a domicilio.
Nello specifico la procedura consisterà nell'assunzione di un primo farmaco (la pillola Ru496) presso un presidio sanitario pubblico e di un secondo farmaco (prostaglandina) a casa, in un ambiente intimo e lontano da occhi indiscreti. Ma l'arcidiocesi, senza sorprendere nessuno, non ci sta e sottolinea che “da un lato, la vita umana ha una 'Dignità infinita’ che non ha flessioni dal momento del concepimento sino a quello della morte terrena e che non viene in alcun modo ridotta dalle condizioni di debolezza che la vita può presentare: la debolezza del malato terminale, della persona con autonomie gravemente ridotte, o - ed è il caso in questione - dell'essere umano in fase embrionale”. Quindi niente aborto, niente eutanasia. Nulla di nuovo insomma.
A infastidire l’arcidiocesi, poi, sarebbe anche il linguaggio utilizzato nell’atto pubblico. “E’ evidente che le parole usate per regolamentare l'ivg determinano un giudizio culturale su quest'atto – si legge ancora – Ed è per questo motivo che ci si sente a disagio quando la Determinazione si sofferma a lungo su aspetti metodologici e farmacologici - quasi l'interruzione di una gravidanza fosse nient'altro che un problema di efficienza - o si legge che l'ivg a domicilio 'non comporta un incremento dei costi rispetto a quelli attesi nel percorso in consultorio o in ambulatorio ospedaliero’, o che l'opportunità dell'Ivg domestica rappresenta 'una libertà di scelta’, come se il luogo in cui viene eseguito l'aborto venisse ad incidere sul senso di ciò che sta avvenendo, o - ancora - che l'essere vivente dotato di un proprio unico e irripetibile corredo genetico venga definito 'prodotto del concepimento’”.
Un linguaggio che alle orecchie dei fedeli suona come poco rispettoso della dignità umana. Quella stessa dignità che, però, può cadere vittima delle discriminazioni, dei maltrattamenti raccontati dalle donne che decidono di abortire, o della violenza ostetrica nei confronti di quelle che scelgono di non farlo.