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Home » Attualità » Aborto, donna salvadoregna condannata a 50 anni: il massimo della pena. È allarme

Aborto, donna salvadoregna condannata a 50 anni: il massimo della pena. È allarme

Per la prima volta in El Salvador è stata applicata la sanzione estrema, l'allarme di 'Women’s march Rome': “Un diritto a rischio anche in Occidente“

Letizia Cini
10 Luglio 2022
El Salvador, attiviste manifestano contro la condanna a 50 anni di reclusione per aver abortito

El Salvador, attiviste manifestano contro la condanna a 50 anni di reclusione per aver abortito

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Dopo il caso della bambina di 11 anni costretta dai giudici a portare avanti una gravidanza dopo essere stata violentata in Brasile, in El Salvador una donna è stata condannata a 50 anni di reclusione per aver abortito. Si tratta della prima volta che veniva applicata la sanzione massima. I gruppi pro-aborto si sono impegnati a presentare ricorso contro la sentenza  Non è la prima volta che la giustizia salvadoregna condanna una donna al carcere dopo aver subito un aborto spontaneo. Ma questa è la prima volta che viene applicata la pena massima – cinquant’anni.

Lesly, 21 anni, il caso

Lesly, 21 anni, è stata condannata il 29 giugno per “omicidio aggravato” dopo essere stata vittima di un’emergenza ostetrica, ha annunciato lunedì 4 luglio il Collettivo di cittadini per la depenalizzazione dell’aborto, che l’ha difesa in tribunale.
“Lesly è una povera donna di un villaggio rurale nell’est del paese – spiega Angelina Montoya su Le Monde – . La sua casa, dove vive con i suoi sei fratelli, non ha accesso all’acqua potabile o all’elettricità. Lesly non è andata oltre la scuola primaria. Nel giugno 2020, mentre era a casa, ha sentito il bisogno di andare in bagno, una semplice latrina, appunto. “Non sapeva nemmeno di essere incinta, era la sua prima gravidanza, e in realtà era il travaglio che stava iniziando”, spiega a World Abigail Cortez, avvocato del Citizen Collective. “Sentivo che qualcosa stava venendo fuori”, ha detto la giovane donna, che all’epoca aveva 19 anni.
La famiglia ha chiamato i servizi di emergenza, che hanno portata la donna in ospedale, dove ha dovuto ricevere tre trasfusioni di sangue. Quindi è scattata la denincia alla polizia e la protagonista dell’assurda vicenda è stata trasferita in prigione con l’accusa di “omicidio aggravato”. Secondo l’accusa, la giovane ha nascosto la gravidanza alla famiglia e ha ucciso con un coltello il bambino – co la gravidanza portata quasi a termine – prima di “abbandonarlo nel cortile di casa”.

In carcere ci sono nove le donne che hanno abortito

Una donna è stata condannata a 50 anni di carcere per omicidio dopo un aborto spontaneo
Una donna è stata condannata a 50 anni di carcere per omicidio dopo un aborto spontaneo

“Il giudice ha rifiutato di considerare le prove che attestavano la sua innocenza, critica Abigail Cortez. Ad esempio, ha rifiutato il rapporto sociale che mostrava che Lesly è stata vittima di violenze di genere da parte della sua famiglia sin da quando era bambina. Ha anche rifiutato che fosse effettuata una perizia psicologica. L’accusa non cerca di trovare la verità, ma di condannare le donne.”
Il 29 giugno il tribunale di San Miguel (nell’est del Paese) ha condannato Lesly a cinquant’anni di reclusione, la pena massima, per “omicidio aggravato”: “Le madri sono la fonte di protezione dei figli in ogni circostanza della vita, e tu non lo eri”, lo rimproverò il giudice.
“Non è raro, in questo piccolo Paese centroamericano che dal 1988 ha sanzionato qualunque tipo di aborto, che le donne vittime di emergenze ostetriche siano accusate di aver effettivamente voluto liberarsi del proprio figlio – riposta Angelina Montoya su Le Monde – . Non vengono poi condannate all’aborto – la cui pena massima è di otto anni di reclusione – ma per omicidio. Secondo il Citizen Collective, sono state 181 tra il 1988 e il 2019. L’ultima è stata condannata il 9 maggio a trent’anni di carcere“.

I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea
I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea

Nove sono attualmente dietro le sbarre per questo motivo, di cui sei in attesa di giudizio. Nel novembre 2021, la Corte interamericana dei diritti umani (IACHR) ha tuttavia costretto El Salvador a smettere di criminalizzare le donne vittime di emergenze ostetriche. La sentenza, che dovrebbe costituire un precedente in tutto il continente americano – Stati Uniti compresi – riguardava Manuela, condannata a trent’anni di carcere per omicidio nel 2008 dopo un aborto spontaneo, e morta di cancro due anni dopo, ammanettata al suo letto.

“Lo Stato salvadoregno perseguita le donne povere”

“Mi fa male il cuore, perché abbiamo cercato di chiudere la pagina della triste storia di El Salvador che condanna ingiustamente le povere donne per emergenze ostetriche, ma lo Stato salvadoregno, ancora una volta, sta perseguitando le donne che non avevano il diritto o le condizioni per difendersi”, si rammarica in un comunicato, Morena Herrera, presidente del Citizen Collective, che prevede di appellarsi contro la condanna.
Nella regione, altri cinque Paesi vietano completamente l’aborto, anche in caso di pericolo per la vita della donna incinta: Nicaragua, Honduras, Repubblica Dominicana, Haiti e Suriname.

La fondatrice di Women’s march Rome, Jillian Taft

La manifestazione a Roma (foto tratta dal profilo Facebook Women’s march Rome, Italy)
Aborto, la manifestazione a Roma (foto Ansa)

Dopo la manifestazione a Roma del 7 luglio scorso, la fondatrice di Women’s march Rome Jillian Taft ha commentato la recente decisione della Corte suprema degli Stati Uniti di abolire il diritto costituzionalmente riconosciuto di interrompere la gravidanza. Taft, residente in Italia da vari anni e con doppia cittadinanza statunitense-italiana, è tra le fondatrici della sezione romana di Women’s march, un movimento nato all’indomani dell’elezione del presidente Donald Trump: “Una donna lanciò la proposta di un corteo contro Trump– ricorda Taft- perché sembrava assurdo che un uomo misogino, sessista e privo di qualità fosse stato scelto per andare alla Casa Bianca. Aderirono così tante persone che da quell’iniziativa nacque un’organizzazione”.

Il movimento si è esteso in vari paesi e ovunque propugna gli stessi obiettivi: “I diritti delle donne e della comunità Lgbtqi+, dando voce a tutti senza distinzione di razza, classe sociale o nazionalità. Protiamo avanti poi le battaglie specifiche dei paesi in cui siamo”. In Italia, in tema di aborto, secondo Taft il problema “è la mancanza di informazione per le donne che intendono abortire e la presenza di medici obiettori. Quelli non obiettori devono fare il massimo per garantire a tutti questa pratica”. Se però il diritto ad abortire legalmente è stato messo a rischio negli Stati Uniti, tra le principali democrazie del mondo, per Taft esiste “il rischio concreto che altri Paesi occidentali ne seguano l’esempio. Nel mondo di oggi- prosegue- ci sono vari autocrati al potere: lo vediamo con Putin in Russia, Lukashenko in Bielorussia, ma soprattutto Orban in Ungheria e quest’ultimo- continua Taft- è un caso emblematico perché si tratta di un Paese europeo e membro dell’Ue, che pure ha scelto un leader come Viktor Orban”. Un altro esempio è dato dalla Polonia, “che ha criminalizzato l’aborto e oggi accoglie la maggior parte dei rifugiati ucraini, che sono per lo più donne”.

Il dramma America Latina

La manifestazione a Roma (foto tratta dal profilo Facebook Women’s march Rome, Italy)
La manifestazione a Roma (foto tratta dal profilo Facebook Women’s march Rome, Italy)

La fondatrice di Women’s march Rome chiama in causa anche l’America Latina, dove ogni anno 760.000 donne vanno incontro a complicanze mediche per aver fatto ricorso ad aborti clandestini, stando a uno studio del Guttmacher Institute. “In molti paesi come Honduras, Ecuador, El Salvador o Guatemala la vita è così complessa a causa della criminalità organizzata o delle violenze legate al narcotraffico che il diritto all’aborto è quasi secondorio, e i movimenti sociali devono agire nell’ombra” dice Taft. Eppure di recente, proprio in Paesi come Colombia e Argentina “dopo decenni di lotte si è finalmente raggiunto per legge questo diritto”, oppure il Cile, dove “è stato inserito nella Costituzione. Ora i movimenti latino-americani dovranno guardare a quei paesi- avverte l’attivista- e non più agli Stati Uniti, come modello di riferimento. La strada verso le leggi è lunga e bisogna essere perseveranti”.

L’appello

L’appello dunque da Roma “è rivolto ai politici progressisti: ogni Costituzione liberale deve prevedere l’aborto per le donne, gli uomini trans dotati di utero e le persone non binarie. Va riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, a compiere scelte riproduttive per il proprio futuro”. Perché il rischio, sostiene Taft ripensando al proprio paese, “è compromettere la vita delle giovani e delle donne. Negli Stati Uniti il congedo per maternità dura al massimo due settimane. Le visite mediche e poi il parto sono costosi così come l’asilo nido. Avere un figlio insomma implica avere dei soldi, ecco perché tante pianificano la vita in modo diverso”. E l’uomo? “La legge americana prevede l’obbligo per il padre di contribuire alle spese- dice l’attivista- ma se il minore non è riconosciuto, la donna dovrebbe denunciare il partner e portarlo in tribunale, e anche questo implica costi elevati. Quindi spesso ci rinuncia”.

Aborto: “Un diritto a rischio anche in Occidente“

La strada verso le leggi è lunga e bisogna essere perseveranti”. L’appello dunque da Roma “è rivolto ai politici progressisti: ogni Costituzione liberale deve prevedere l’aborto per le donne, gli uomini trans dotati di utero e le persone non binarie. Va riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, a compiere scelte riproduttive per il proprio futuro”. Perché il rischio, sostiene Taft ripensando al proprio Paese, “è compromettere la vita delle giovani e delle donne. Negli Stati Uniti il congedo per maternità dura al massimo due settimane. Le visite mediche e poi il parto sono costosi così come l’asilo nido. Avere un figlio insomma implica avere dei soldi, ecco perché tante pianificano la vita in modo diverso”.

La situazione nel mondo

I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea
I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea

I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea. Circa 39 Paesi consentono il ricorso all’aborto solo a condizione che sia necessario per salvare la vita della madre, mentre 56 Stati lo permettono unicamente per preservare la salute fisica e mentale della madre. 14 i Paesi in cui l’aborto è possibile su basi sociali ed economiche (cioè in cui il ricorso all’aborto è valutato rispetto all’impatto che una gravidanza avrebbe sulla madre per le condizioni sociali ed economiche e dell’ambiente in cui vive). In questa categoria c’è l’India, per esempio, che nel 2020 ha approvato una norma che consente l’interruzione di gravidanza per feti fino alle dodici settimane di età ma solo con il parere di un medico sui possibili rischi per la salute della madre o del futuro nascituro. Sono 67, infine, i Paesi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è possibile su richiesta della donna, fatto salvo il limite massimo per la pratica dell’aborto comunemente fissato a dodici settimane.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Dopo il caso della bambina di 11 anni costretta dai giudici a portare avanti una gravidanza dopo essere stata violentata in Brasile, in El Salvador una donna è stata condannata a 50 anni di reclusione per aver abortito. Si tratta della prima volta che veniva applicata la sanzione massima. I gruppi pro-aborto si sono impegnati a presentare ricorso contro la sentenza  Non è la prima volta che la giustizia salvadoregna condanna una donna al carcere dopo aver subito un aborto spontaneo. Ma questa è la prima volta che viene applicata la pena massima – cinquant’anni.

Lesly, 21 anni, il caso

Lesly, 21 anni, è stata condannata il 29 giugno per “omicidio aggravato” dopo essere stata vittima di un’emergenza ostetrica, ha annunciato lunedì 4 luglio il Collettivo di cittadini per la depenalizzazione dell’aborto, che l’ha difesa in tribunale. “Lesly è una povera donna di un villaggio rurale nell’est del paese - spiega Angelina Montoya su Le Monde - . La sua casa, dove vive con i suoi sei fratelli, non ha accesso all’acqua potabile o all’elettricità. Lesly non è andata oltre la scuola primaria. Nel giugno 2020, mentre era a casa, ha sentito il bisogno di andare in bagno, una semplice latrina, appunto. “Non sapeva nemmeno di essere incinta, era la sua prima gravidanza, e in realtà era il travaglio che stava iniziando”, spiega a World Abigail Cortez, avvocato del Citizen Collective. “Sentivo che qualcosa stava venendo fuori”, ha detto la giovane donna, che all’epoca aveva 19 anni. La famiglia ha chiamato i servizi di emergenza, che hanno portata la donna in ospedale, dove ha dovuto ricevere tre trasfusioni di sangue. Quindi è scattata la denincia alla polizia e la protagonista dell’assurda vicenda è stata trasferita in prigione con l’accusa di “omicidio aggravato”. Secondo l’accusa, la giovane ha nascosto la gravidanza alla famiglia e ha ucciso con un coltello il bambino - co la gravidanza portata quasi a termine - prima di “abbandonarlo nel cortile di casa”.

In carcere ci sono nove le donne che hanno abortito

Una donna è stata condannata a 50 anni di carcere per omicidio dopo un aborto spontaneo
Una donna è stata condannata a 50 anni di carcere per omicidio dopo un aborto spontaneo
“Il giudice ha rifiutato di considerare le prove che attestavano la sua innocenza, critica Abigail Cortez. Ad esempio, ha rifiutato il rapporto sociale che mostrava che Lesly è stata vittima di violenze di genere da parte della sua famiglia sin da quando era bambina. Ha anche rifiutato che fosse effettuata una perizia psicologica. L’accusa non cerca di trovare la verità, ma di condannare le donne.” Il 29 giugno il tribunale di San Miguel (nell’est del Paese) ha condannato Lesly a cinquant’anni di reclusione, la pena massima, per “omicidio aggravato”: “Le madri sono la fonte di protezione dei figli in ogni circostanza della vita, e tu non lo eri”, lo rimproverò il giudice. “Non è raro, in questo piccolo Paese centroamericano che dal 1988 ha sanzionato qualunque tipo di aborto, che le donne vittime di emergenze ostetriche siano accusate di aver effettivamente voluto liberarsi del proprio figlio - riposta Angelina Montoya su Le Monde - . Non vengono poi condannate all’aborto – la cui pena massima è di otto anni di reclusione – ma per omicidio. Secondo il Citizen Collective, sono state 181 tra il 1988 e il 2019. L’ultima è stata condannata il 9 maggio a trent’anni di carcere“.
I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea
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Nove sono attualmente dietro le sbarre per questo motivo, di cui sei in attesa di giudizio. Nel novembre 2021, la Corte interamericana dei diritti umani (IACHR) ha tuttavia costretto El Salvador a smettere di criminalizzare le donne vittime di emergenze ostetriche. La sentenza, che dovrebbe costituire un precedente in tutto il continente americano - Stati Uniti compresi - riguardava Manuela, condannata a trent’anni di carcere per omicidio nel 2008 dopo un aborto spontaneo, e morta di cancro due anni dopo, ammanettata al suo letto.

“Lo Stato salvadoregno perseguita le donne povere”

“Mi fa male il cuore, perché abbiamo cercato di chiudere la pagina della triste storia di El Salvador che condanna ingiustamente le povere donne per emergenze ostetriche, ma lo Stato salvadoregno, ancora una volta, sta perseguitando le donne che non avevano il diritto o le condizioni per difendersi”, si rammarica in un comunicato, Morena Herrera, presidente del Citizen Collective, che prevede di appellarsi contro la condanna. Nella regione, altri cinque Paesi vietano completamente l’aborto, anche in caso di pericolo per la vita della donna incinta: Nicaragua, Honduras, Repubblica Dominicana, Haiti e Suriname.

La fondatrice di Women’s march Rome, Jillian Taft

La manifestazione a Roma (foto tratta dal profilo Facebook Women’s march Rome, Italy)
Aborto, la manifestazione a Roma (foto Ansa)
Dopo la manifestazione a Roma del 7 luglio scorso, la fondatrice di Women’s march Rome Jillian Taft ha commentato la recente decisione della Corte suprema degli Stati Uniti di abolire il diritto costituzionalmente riconosciuto di interrompere la gravidanza. Taft, residente in Italia da vari anni e con doppia cittadinanza statunitense-italiana, è tra le fondatrici della sezione romana di Women’s march, un movimento nato all’indomani dell’elezione del presidente Donald Trump: “Una donna lanciò la proposta di un corteo contro Trump- ricorda Taft- perché sembrava assurdo che un uomo misogino, sessista e privo di qualità fosse stato scelto per andare alla Casa Bianca. Aderirono così tante persone che da quell’iniziativa nacque un’organizzazione”. Il movimento si è esteso in vari paesi e ovunque propugna gli stessi obiettivi: “I diritti delle donne e della comunità Lgbtqi+, dando voce a tutti senza distinzione di razza, classe sociale o nazionalità. Protiamo avanti poi le battaglie specifiche dei paesi in cui siamo”. In Italia, in tema di aborto, secondo Taft il problema “è la mancanza di informazione per le donne che intendono abortire e la presenza di medici obiettori. Quelli non obiettori devono fare il massimo per garantire a tutti questa pratica”. Se però il diritto ad abortire legalmente è stato messo a rischio negli Stati Uniti, tra le principali democrazie del mondo, per Taft esiste “il rischio concreto che altri Paesi occidentali ne seguano l’esempio. Nel mondo di oggi- prosegue- ci sono vari autocrati al potere: lo vediamo con Putin in Russia, Lukashenko in Bielorussia, ma soprattutto Orban in Ungheria e quest’ultimo- continua Taft- è un caso emblematico perché si tratta di un Paese europeo e membro dell’Ue, che pure ha scelto un leader come Viktor Orban”. Un altro esempio è dato dalla Polonia, “che ha criminalizzato l’aborto e oggi accoglie la maggior parte dei rifugiati ucraini, che sono per lo più donne”.

Il dramma America Latina

La manifestazione a Roma (foto tratta dal profilo Facebook Women’s march Rome, Italy)
La manifestazione a Roma (foto tratta dal profilo Facebook Women’s march Rome, Italy)
La fondatrice di Women’s march Rome chiama in causa anche l’America Latina, dove ogni anno 760.000 donne vanno incontro a complicanze mediche per aver fatto ricorso ad aborti clandestini, stando a uno studio del Guttmacher Institute. “In molti paesi come Honduras, Ecuador, El Salvador o Guatemala la vita è così complessa a causa della criminalità organizzata o delle violenze legate al narcotraffico che il diritto all’aborto è quasi secondorio, e i movimenti sociali devono agire nell’ombra” dice Taft. Eppure di recente, proprio in Paesi come Colombia e Argentina “dopo decenni di lotte si è finalmente raggiunto per legge questo diritto”, oppure il Cile, dove “è stato inserito nella Costituzione. Ora i movimenti latino-americani dovranno guardare a quei paesi- avverte l’attivista- e non più agli Stati Uniti, come modello di riferimento. La strada verso le leggi è lunga e bisogna essere perseveranti”.

L'appello

L’appello dunque da Roma “è rivolto ai politici progressisti: ogni Costituzione liberale deve prevedere l’aborto per le donne, gli uomini trans dotati di utero e le persone non binarie. Va riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, a compiere scelte riproduttive per il proprio futuro”. Perché il rischio, sostiene Taft ripensando al proprio paese, “è compromettere la vita delle giovani e delle donne. Negli Stati Uniti il congedo per maternità dura al massimo due settimane. Le visite mediche e poi il parto sono costosi così come l’asilo nido. Avere un figlio insomma implica avere dei soldi, ecco perché tante pianificano la vita in modo diverso”. E l’uomo? “La legge americana prevede l’obbligo per il padre di contribuire alle spese- dice l’attivista- ma se il minore non è riconosciuto, la donna dovrebbe denunciare il partner e portarlo in tribunale, e anche questo implica costi elevati. Quindi spesso ci rinuncia”.

Aborto: “Un diritto a rischio anche in Occidente“

La strada verso le leggi è lunga e bisogna essere perseveranti”. L’appello dunque da Roma “è rivolto ai politici progressisti: ogni Costituzione liberale deve prevedere l’aborto per le donne, gli uomini trans dotati di utero e le persone non binarie. Va riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, a compiere scelte riproduttive per il proprio futuro”. Perché il rischio, sostiene Taft ripensando al proprio Paese, “è compromettere la vita delle giovani e delle donne. Negli Stati Uniti il congedo per maternità dura al massimo due settimane. Le visite mediche e poi il parto sono costosi così come l’asilo nido. Avere un figlio insomma implica avere dei soldi, ecco perché tante pianificano la vita in modo diverso”.

La situazione nel mondo

I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea
I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea
I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono 26, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea. Circa 39 Paesi consentono il ricorso all’aborto solo a condizione che sia necessario per salvare la vita della madre, mentre 56 Stati lo permettono unicamente per preservare la salute fisica e mentale della madre. 14 i Paesi in cui l’aborto è possibile su basi sociali ed economiche (cioè in cui il ricorso all’aborto è valutato rispetto all’impatto che una gravidanza avrebbe sulla madre per le condizioni sociali ed economiche e dell’ambiente in cui vive). In questa categoria c’è l’India, per esempio, che nel 2020 ha approvato una norma che consente l’interruzione di gravidanza per feti fino alle dodici settimane di età ma solo con il parere di un medico sui possibili rischi per la salute della madre o del futuro nascituro. Sono 67, infine, i Paesi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è possibile su richiesta della donna, fatto salvo il limite massimo per la pratica dell’aborto comunemente fissato a dodici settimane.
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