Nelle scorse ore, l’esercito israeliano, attraverso volantini lanciati dal cielo, ha fatto sapere a cittadine e cittadini, sfollate e sfollati, che devono abbandonare la zona est di Rafah, un fazzoletto di terra in cui vivono attualmente circa centomila persone.
Invasione di Rafah: un disastro umanitario annunciato
Le operazioni militari, l’incursione via terra e i raid sono in corso. Un’azione che, seppur descritta con il freno a mano tirato da parte degli analisti, non farà altro che portare all’acuirsi delle sofferenze dei palestinesi. L’ennesimo disastro umanitario annunciato, da cui larga parte del mondo sta prendendo le distanze.
Ultima è stata l’Australia che ha ribadito al governo Netanyahu la propria contrarietà nei confronti dell'offensiva a Rafah, dichiarando che le conseguenze sui civili sarebbero devastanti. A schierarsi contro l’operazione anche la Spagna che, oltre ad accusare Gerusalemme di mettere in pericolo la vita di un milione e quattrocentomila palestinesi, ha fatto presente che la stabilità della regione rischierebbe di essere irrimediabilmente compromessa. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno prima sospeso e poi timidamente ripreso la consegna di armi a Israele, rivalutando però solo spedizioni cosiddette di sicurezza a breve termine. Ancora bloccati sono, invece, gli aiuti umanitari a Rafah, letteralmente sotto scacco dei carri armati israeliani.
Per comprendere i confini di una delle più grandi tragedie contemporanee che Israele vorrebbe mettere in atto, basti pensare che oltre la metà dei due milioni e trecentomila abitanti di Gaza ha trovato rifugio proprio a Rafah. A far da sfondo alla ferma volontà di attaccare c’è la trattativa sul cessate il fuoco che pare essere a un punto morto. Stando alle ultime indiscrezioni, pare che un alto funzionario di Hamas abbia tacciato Netanyahu di aver letteralmente azzerato i progressi delle ultime settimane, riportando al punto di partenza i negoziati finalizzati al rilascio degli ostaggi israeliani.
L’appello per il cessate il fuoco
A entrare a gamba tesa nel dibattito in queste ore cruciali è stata anche la direttrice generale dell’Unicef, Catherine Russell, denunciando ancora una volta che la guerra a Gaza sta avendo un impatto inimmaginabile sui più piccoli e che a Rafah, una città principalmente di bambine e bambini, le conseguenze di una ulteriore escalation potrebbero essere sconvolgenti. Il suo è un appello chiaro: la priorità è salvare vite, non spezzarle. Centinaia di migliaia tra bambine e bambini al valico di Rafah rischiano di morire. Una catastrofe umanitaria che si aggiunge a quella che dal sette ottobre affligge indiscriminatamente le cittadine e i cittadini palestinesi. Attualmente, sono circa seicentomila i bambini gravemente feriti, affamati, traumatizzati, rifugiati a Rafah. In un video diffuso sui social, Russell senza mezze parole ha fatto sapere che a Gaza, oggi, non esiste un luogo sicuro. Da parte di Unicef, la priorità è prendersi cura di donne e bambini e garantire la fornitura di servizi e aiuti necessari per la sopravvivenza. l’auspicio è, poi, è una resa incondizionata affinché gli ostaggi vengano liberati e la violenza contro i palestinesi possa arrestarsi. “I bambini a gaza hanno bisogno del cessate il fuoco”, ha dichiarato. Una richiesta tanto sacrosanta quanto, a oggi, inascoltata. La domanda - niente affatto retorica - è dolorosa: nello scacchiere internazionale, quanto vale la vita di un bambino?