Quella della violazione dei diritti delle donne - sul posto di lavoro e non solo - è una storia dalla trama ben nota e un finale ancora drammaticamente incerto. Questa volta, l’infausta sorte di dover fare i conti con un patriarcato ancora estremamente radicato in ogni contesto sociale è stata una ventunenne del nuorese. L’incubo è iniziato subito. Assunta a tempo indeterminato con un contratto multiservizi da una piccola impresa che ha in appalto i servizi di pulizie di un’azienda situata nell’area industriale nei pressi di Nuoro, la giovane credeva di poter contare su un futuro certo e sulla possibilità di poter guardare al domani con qualche sicurezza in più. Come frasi fatte insegnano, però, “non è tutto oro quel che luccica” e in questo folle mondo in cui tutto pare debba avere un prezzo da pagare, al termine del periodo di prova di due settimane, la datrice di lavoro si è presentata al suo cospetto con in mano un test di gravidanza e, davanti a colleghe e colleghi, senza pudore alcuno, le ha chiesto di recarsi nel bagno dell’ufficio per farlo.
“O fai il test o ti licenzio”
La minaccia non si è fatta attendere: qualora la ragazza si fosse rifiutata, sarebbe scattato il licenziamento. Con il cuore pesante, la neo-assunta si reca in bagno, fa il test di gravidanza, attende l’esito, esce e ne comunica l’esito: negativo. La vita, però, si sa, riserva sempre qualche sorpresa e, dopo appena un mese, succede che la giovane donna scopre di essere incinta, tra nausee e sintomi inconfondibili. Felice e preoccupata solo di prendersi cura della vita che custodiva in pancia, si presenta dalla propria ginecologa che prontamente le prepara un certificato di astensione anticipata dal lavoro per gravidanza a rischio. Da quel momento in poi, il vuoto pneumatico. L’impresa sparisce. Nessuno la contatta. Gli stipendi non arrivano. I sospetti di un licenziamento si fanno sempre più fondati fino a diventare una triste realtà. Un licenziamento anomalo, senza lettera formale, con un semplice messaggio giunto a mezzo WhatsApp da Unilav in cui si comunica l’interruzione del rapporto di lavoro per - secondo loro - giusta causa.
La denuncia della ragazza
La faccenda adesso è nelle mani di patronato e ispettorato del lavoro. Secondo la datrice di lavoro, la giovane avrebbe agito in mala fede, nascondendo la gravidanza. Al di là della ragione e del torto in punta di diritto, il problema è a monte: nel 2024, è ancora pensabile far scegliere a una donna se lavorare o mettere al mondo un figlio? Il fatto che le donne, al contrario degli uomini, debbano essere giudicate idonee a lavorare solo - in alcuni casi - se non intenzionate a fare figli è un assioma che ci rispedisce dritti nel Medio Evo.
Le donne intenzionate a fare figli non possono essere considerate un costo inutile, un investimento a perdere. Al contrario, devono essere considerate risorse non solo per l’azienda ma per l’intera società. Il fatto che si facciano sempre meno figli è legato a doppio filo a questa folle dinamica ed è la conseguenza diretta di una logica secondo la quale le donne, se madri, hanno, di base, un deficit da colmare.
Anche questa volta ci troviamo a fare i conti con un mondo al contrario, in cui si muore di lavoro perché non vengono adottati i criteri minimi di sicurezza, si violano i contratti in virtù delle economie, si chiede di lavorare durante i periodi di malattia e cassa integrazione, ma non si accetta il fatto che, per andare avanti, il mondo ha bisogno anche di madri che, in quanto tali, di certo non perdono lo status di donne. Una follia che grida vendetta e che, in questo come in molti altri casi, deve trovare in fondo al tunnel tutta la giustizia che merita.