
Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo che definisce "discriminazione illegale" le politiche di diversità, equità e inclusione
Che lo spirito dei tempi sia cambiato, è diventato chiaro da un pezzo. Dal rafforzamento delle estreme destre alla vittoria delle istanze conservatrici, nel mondo occidentale stiamo assistendo a un rigetto delle politiche di inclusione, equità e tutela delle diversità (in inglese DEI: Diversity, Equity and Inclusion). C’è sempre più ostilità verso quelle idee che qualcuno chiama “robaccia woke” – quella woke è una cultura che promuove la lotta a razzismo e discriminazioni – e che qualcun altro chiama “una società giusta”. Ma se fino a poco tempo fa la guerra contro l’inclusione era in qualche modo mascherata, principalmente sotto la bandiera della libertà di espressione (fosse pure quell’espressione un insulto o un discorso d’odio), dopo l’elezione di Donald Trump siamo arrivati alla guerra aperta.
Nell’atto più recente di questo conflitto, la Commissione federale per le comunicazioni degli Stati Uniti – di fatto controllata dal Governo – ha annunciato l’apertura di un’indagine sulle pratiche di diversità e inclusione della Disney, per capire se la multinazionale stia “promuovendo forme odiose di discriminazione DEI in un modo che non rispetta” le normative governative: in sostanza si è arrivati al paradosso di accusare le politiche di non-discriminazione di discriminare.

L’amministrazione Trump ha poi emesso un ordine esecutivo che definisce “discriminazione illegale” queste politiche e anche in Europa, le ambasciate statunitensi, tra cui quella a Roma, Parigi e Madrid, stanno inviando comunicazioni ai fornitori locali, richiedendo di non adottare tali politiche come condizione per mantenere gli appalti con il governo degli Stati Uniti.
Guerra aperta all’inclusione
Queste misure non sono le prime intraprese da Trump per allineare i media alla sua idea di società. Dopo il suo insediamento ha tolto i finanziamenti a centinaia di programmi di tutela alle donne e alla comunità LGBTQ+ e ha revocato le linee guida federali progettate per affrontare la discriminazione basata sulla razza e sulla disabilità. Il 31 gennaio ha estrometto tutti i soldati transgender dall’esercito. Il 17 marzo ha smantellato le emittenti radio Voice of America, Radio Free Europe e Radio Free Asia, che venivano trasmesse in più di 100 paesi del mondo (e in alcuni paesi autoritari erano le uniche fonti d’informazione libere).
Molti di questi ordini esecutivi per ora sono stati bloccati o stemperati dai giudici, ma il punto non è questo: il punto è che tutte queste decisioni stanno facendo cambiare il vento in America e nel mondo, dando forza ai gruppi più conservatrici, reazionari e razzisti della società.

Nel suo discorso al Congresso, “Trump ha confermato ciò che già sapevamo: è intenzionato ad attaccare tutti i percorsi verso il sogno americano che danno a tutte le persone la libertà di prosperare nella nostra nazione e invece accumulare opportunità per i pochi privilegiati”, ha detto Andrea Abrams, direttore esecutivo del gruppo Defending american values coalition.
Questa interpretazione è stata rilanciata da quella metà degli Stati Uniti che è uscita sconfitta dalle elezioni e sta facendo nascere forme di resistenza all’interno della società e, in qualche caso, della stessa amministrazione federale.
La grande illusione
Se contro la Disney l’attacco di Trump è stato piuttosto diretto, molte altre aziende non hanno avuto bisogno del “bastone” per adeguarsi volontariamente alla linea del nuovo inquilino della Casa Bianca. Per anni le società statunitensi hanno attuato politiche di inclusione sulle questioni di genere e sul rispetto delle minoranze, proclamandole come indispensabili. Ma sono bastati un paio di discorsi infuocati di Trump o del suo vicepresidente J.D. Vance contro la cultura woke o la cosiddetta “teoria gender” per indurre multinazionali come Meta, McDonald’s, General Motors, Walmart o BlackRock (solo per citarne alcune) a smantellare in poche settimane i loro programmi di inclusione ed equità (nonostante questi ultimi abbiamo incrementato le performance aziendali).
Questa ossequiosa sottomissione alla nuova aria che tira nelle sale del potere, peraltro, ha smascherando l’illusione che il capitalismo fosse una forza positiva per le minoranze. Non appena gli interessi economici sono mutati, l’anima del commercio ha abbandonato la difesa della diversità ed è tornata a seguire i suoi paladini: maschi e bianchi, come da tradizione.
Che mondo vogliamo?
Beninteso, alcune forme estreme della cultura woke hanno favorito l’elezione di Trump e allontanato da idee progressiste una parte della popolazione statunitense. La cosiddetta “cancel culture”, cioè l’idea di cancellare pezzi del passato da libri, film o luoghi pubblici piuttosto che contestualizzarli in modo critico, ha prodotto dei mostri. Così come un’idea troppo radicale del “politicamente corretto” è arrivata a inficiare ambiti che per loro natura dovrebbero essere liberi dalle catene dell’opinione, come l’arte o la satira.
Tuttavia, tra questi eccessi e il mondo immaginato da Donald Trump c’è un oceano. Esiste una prova infallibile per misurare la grandezza di una società: ovvero il modo in cui tratta coloro che vivono ai margini. La diversità, checché ne dicano i nostalgici dell’uniformità, non è un accidente da correggere, ma la materia prima del progresso. Le politiche di inclusione non sono dunque una concessione pietosa, ma un dovere morale e un atto d’intelligenza. Perché una società che esclude si impoverisce, perde talenti, soffoca idee, si avvita nella paura dell’altro. L’uguaglianza non è livellamento: è offrire a ciascuno il diritto di partire dallo stesso punto.
Chi si straccia le vesti per il “politicamente corretto” dimentica che la storia è lastricata di esclusioni che oggi ci paiono mostruose. Un tempo le donne non votavano, i neri non sedevano sugli autobus, i disabili erano nascosti e i gay erano arrestati. Oggi l’inclusione è l’unico argine al ritorno di quell’ombra. Difenderla, dunque, non è una moda progressista: è la prova che siamo, o vogliamo essere, civili.