Il caso Di Fazio, dopo il caso Genovese. Una ragazza, come nell’ultimo clamoroso caso di cronaca, attratta per un un colloquio di lavoro e poi segregata, drogata, violentata. Ma anche - si scopre nelle ultime ore - la Corte europea dei diritti dell’uomo che condanna l’Italia per le frasi sessiste contenute nella sentenza del 2015, con cui la Corte d’Appello dichiarò assolti otto uomini accusati di stupro di gruppo a Firenze, sette anni prima. Ma accanto a posizioni come questa, da cui si evince che certi stereotipi non sono stati superati, emergono posizioni avanzate come quella espressa al Qn Il Giorno da Letizia Mannella, procuratore aggiunto a Milano, leggi qui l'articolo secondo la quale nel comportamento di chi somministra droghe per indurre a fare sesso si ravvisa un “crimine contro l’umanità“. Come sta cambiando la condizione della donna in materia di violenza sessuale? Le donne sono sottoposte a rischi sempre più elevati, come dimostrano i casi Genovese e Di Fazio. E come possono difendersi? Ne parliamo con Alessia Sorgato, avvocato penalista, parte civile nei principali processi per stupro celebrati in Italia.
Avvocato, le leggi in materia di violenza sessuale sono ancora in grado di raggiungere lo scopo per il quale sono state emanate? O sarà il caso di pensare a una riforma? "Da quando, nel 1996 è stato rubricato come ’reato contro la persona’ (e dobbiamo ringraziare Franca Rame) e non più come reato contro la morale pubblica il gravissimo reato di violenza sessuale è inquadrato correttamente nel nostro ordinamento. Non credo servano riforme. Basterebbe che la norma venisse applicata in maniera appropriata". In che senso? "Occorre che, soprattutto in sede processuale, vi sia rispetto per le vittime e maggior ascolto delle loro rimostranze e pretese. Purtroppo, i processi per stupro non sempre si svolgono ad armi pari". Cosa vuol dire? "Non viene assicurata condizione di parità fra la difesa degli imputati e la rappresentanza di chi ha subito. Anziché processi contro gli stupratori, spesso c’è la tendenza a farli divenire processi contro le vittime. Alle donne vengono rivolte domande imbarazzanti sull'abbigliamento, vengono setacciati i social per ricamare su ogni dettaglio della vita personale, si chiedono perizie psichiatriche per eliminare i fondamenti delle loro denunce. Le vittime di stupri sono spesso messe alla gogna, quasi fossero loro a doversi difendere. Purtroppo, sembra che il tempo sia trascorso invano". Perché? "Perché il victim blaming, ovvero la colpevolizzazione della vittima, continua ad avvenire in sede processuale come succedeva all’epoca del delitto del Circeo (settembre 1975 ndr): i difensori degli imputati si rivolgevano in quell'occasione alla vittima sopravvissuta - ma in genere a tutte le donne - con argomentazioni del tipo: ’Avete voluto andare a lavorare?', 'Avete voluto accorciare la gonna?', 'Se siete andate da sole nella villa al mare con degli amici, dovevate mettere in conto ciò che avrebbe potuto capitarvi'. Quasi mezzo secolo dopo, la musica non è cambiata. Avvocati che in teoria dovrebbero essere miei colleghi, si rivolgono alle donne vittime di violenze dicendo in sostanza: Te la sei voluta, te la sei cercata. Basterebbe che in aula fossero impediti comportamenti del genere, ma non sempre è così".
Insomma: buona la norma,cattiva l'applicazione. "Buona norma, anche perché non è solo farina del nostro sacco. In materia di violenze sessuali siamo in un contesto europeo e internazionale dove l’attenzione è altissima: è intervenuta la Convenzione di Istanbul, ratificata anche dall’Italia, attraverso la quale norme internazionali si applicano automaticamente nel nostro ordinamento con disposizioni a favore delle vittime e che impongono rispetto nei loro confronti". Sembrano in aumento i casi di ricorso alla droga per ottenere rapporti sessuali. "A leggere le cronache pare che i casi siamo moltiplicati: in realtà temo sia sempre stato così. Oggi se ne parla di più, perché le donne hanno maggior coraggio". Come possono difendersi, le donne? "Prevenzione, prevenzione. Mi spendo moltissimo, nelle interviste, per raccomandare di non fidarsi mai di nessuno, di avere sempre un controllo, un contatto telefonico. Giriamo libere, camminiamo da sole, andiamo dove vogliamo, ma cerchiamo una rete di sicurezza. Se vado a un colloquio di lavoro dico a una persona di cui mi fido: se dopo due ore non ho dato notizie, chiamami. Come facevano un tempo i genitori particolarmente apprensivi. Fate squillare il telefono, fate capire all’eventuale aggressore che non si è completamente sole". La decisione se denunciare o meno l’aggressore è lasciata alla vittima. E’ giusto, oppure si lascia quest'ultima alla mercé di chi potrebbe ricattarla, la si pone nuovamente in condizioni di sudditanza? "E’ sacrosanto lasciare alla vittima, alla donna, se accollarsi il peso di un processo che potrebbe costare molto sul piano umano, che purtroppo potrà lasciare segni aggiuntivi rispetto alla violenza subita. E’ una sfera troppo intima perché si agisca d’ufficio, prescindendo dalla volontà di chi ha subito". Se il processo sarà una prova durissima, perché le donne denunciano? “Perché il colpevole venga punito, ed è la soluzione che sembrerà più ovvia. Ma molte donne, pur conscie delle difficoltà che incontreranno, denunciano per 'altruismo', perché non capiti ad altre, sperando che tramite il processo siano ricostruiti il profilo e il percorso criminologico che ha portato l’aggressore a compere il reato. E sperando che con il processo che loro sosterranno sia portato un tassello in più alla conoscenza, sia più chiaro a tutte come comportarsi. Perché quella triste sorte non accada mai più, a nessuna".