Nebraska, ragazza incriminata per aborto: Facebook ha fornito i dati personali alla polizia

La 18enne Celeste Burgess e sua madre sono state denunciate per un'interruzione di gravidanza illegale. In tribunale contro di loro sono state usati come prove i messaggi che si sono scambiate sulla piattaforma

di MARIANNA GRAZI
11 agosto 2022

chat su facebook

Quello che molti temevano è purtroppo accaduto: per scoprire le interruzioni di gravidanza - sempre più pratica vietata -, negli Usa le autorità stanno facendo ricorso anche ai dati personali contenuti nelle app di messaggistica e sui social. A destare scalpore è un caso in Nebraska, dove Celeste Burgess, 18 anni, e sua madre Jessica, 41, sono finite in tribunale per un presunto aborto illegale, con molteplici capi d'imputazione. La polizia ha presentato come prove i messaggi su Facebook che le due donne si sarebbero scambiate e a cui , con l'autorizzazione dei gestori della piattaforma - in questo caso Meta -, ha avuto accesso. Le chat private, secondo le autorità, mostrano le prove di un aborto farmacologico illegale autogestito e di un piano per nascondere 'i resti'.

L'utilizzo dei dati personali come prova dell'aborto

dati personali app aborto

Il caso Burgess riporta l'attenzione sul pericolo che app e piattaforme social possano essere usate per ricavare i dati personali delle donne che chiedono o praticano aborti

La polizia di Norfolk ha iniziato a indagare su, alla fine di aprile, perché temeva che la giovane avesse partorito prematuramente un feto morto. Dopo la denuncia iniziale delle due, le forze dell'ordine hanno continuato a indagare, chiedendo e ottenendo dalla piattaforma i messaggi su Facebook tra madre e figlia, nelle quali sembrano fare riferimento a pillole abortive e a bruciare "le prove", secondo una copia della conversazione - che ora viene utilizzata in udienza - contenuta nei documenti del tribunale. La polizia sostiene che il corpo del feto, riesumato, sembrava avere "lesioni termiche" che indicano il possibile tentativo di 'bruciarlo' dopo l'aborto. Il processo è iniziato prima che la Corte Suprema annullasse la sentenza Roe v. Wade a giugno. Ma mette in evidenza un problema che gli esperti di privacy digitale e alcuni legislatori hanno sollevato negli ultimi mesi: il fatto che le forze dell'ordine, in alcuni Stati, possano utilizzare i dati personali dei cittadini per applicare le leggi che vietano l'aborto, pratica che si teme possa prendere ancora più piede dopo la decisione del supremo tribunale americano. Secondo i critici i pubblici ministeri potrebbero, ad esempio, notificare mandati di perquisizione alle aziende tecnologiche, richiedendo i dati di localizzazione, la cronologia delle ricerche o i registri delle chiamate come supporto legale per confermare in tribunale se qualcuno ha abortito o ha contribuito a farlo. Il caso Burgess mostra come ciò sia già avvenuto, in alcuni casi, per applicare le leggi esistenti.

La vicenda di Celeste Burgess

Le forze dell’ordine del Nebraska sono venute a conoscenza del fatto tramite una soffiata anonima. Celeste, che all'epoca dei fatti aveva 17 anni, secondo la ricostruzione, avrebbe avuto un aborto alla 28esima settimana di gestazione (settimo mese). Ma secondo le autorità lei e la madre avrebbero acquistato online il Pregnot, farmaco utilizzato per indurre un’interruzione di gravidanza che, come la pillola RU486, contiene mifepristone. Un 22enne le avrebbe poi aiutate a seppellire il feto in un campo e per questo anche lui sarebbe finito sotto accusa. La ragazza invece, nella prima deposizione, aveva detto agli investigatori di aver dato alla luce inaspettatamente un feto nato morto e che lei e sua madre lo avevano poi seppellito. Quando è stata interrogata da un detective della polizia, l'adolescente ha "scrollato i messaggi sul suo account Facebook Messenger" nel tentativo di far emergere la data del suo aborto, cosa che, secondo l'agente, lo avrebbe portato a credere che potessero esserci altri messaggi con specifiche sul caso. Dopo aver sequestrato i telefoni di madre e figlia, il 7 giugno gli investigatori hanno notificato a Meta un mandato di perquisizione per ottenere informazioni relative agli account di Celeste e di sua madre. Facebook ha consegnato i documenti relativi nel giro di due giorni: comprendevano informazioni sull'account, immagini, registrazioni audio e visive, messaggi e altri contenuti, come scambi di messaggi diretti tra la giovane e Jessica due giorni prima dell'"aborto spontaneo/parto spontaneo". Secondo una dichiarazione del detective Ben McBride a seguito di un'ulteriore perquisizione, le chat suggerivano che le donne avevano ricevuto le pillole e avevano deciso come usarle e cosa fare con "le prove".

Le imputazioni

Il quadro ora si presenta molto complicato per le imputate, che rischiano condanne pesanti: a giugno, Celeste e Jessica sono state accusate di atti proibiti con resti scheletrici umani, occultamento della morte di un'altra persona e di false dichiarazioni. Entrambe si sono dichiarate non colpevoli e il processo è stato fissato per la fine dell'anno. Dopo che la polizia ha ottenuto il materiale dai due mandati di perquisizione, Jessica è stata accusata di altri due reati, induzione all'aborto illegale e pratica dell'aborto come persona diversa da un medico autorizzato, per i quali si è nuovamente dichiarata non colpevole. Attualmente il Nebraska proibisce gli aborti dopo le 20 settimane, una legge in vigore da prima dell'annullamento della sentenza Roe v. Wade. In una dichiarazione di martedì sera su Twitter, in risposta a un articolo sul caso Burgess, il portavoce di Meta Andy Stone ha affermato che "da nessuna parte, nei mandati validi che abbiamo ricevuto dalle forze dell'ordine locali all'inizio di giugno, prima della decisione della Corte Suprema, si menzionava l'aborto". In un post pubblicato martedì sul suo sito web, intitolato "Correggiamo le informazioni sul coinvolgimento di Meta nel caso del Nebraska", l'azienda ha dichiarato che "i documenti del tribunale indicano che la polizia stava indagando sul presunto appiccamento di fuoco e seppellimento illegale di un neonato nato morto". "I mandati erano accompagnati da ordini di non divulgazione, che ci impedivano di condividere informazioni al riguardo. Gli ordini sono stati ora revocati". La dichiarazione depositata da McBride, il detective che sta indagando sui Burgess, in cui si chiedeva l'approvazione del mandato di perquisizione a Facebook, riportava che avrebbe cercato prove relative ad "atti proibiti con resti scheletrici", secondo i documenti del tribunale ottenuti dalla CNN Business.

Privacy in pericolo

Il problema di fondo che emerge da questa e da tante altre vicende in materia di diritti ha un duplice aspetto: da una parte c'è l’obbligo di una società di fornire i dati alle forze dell’ordine che ne fanno richiesta per le indagini e dall'altra la possibilità di disporre di questi dati. L’unico modo per uscire dall'impasse, quindi, è che informazioni e conversazioni tra gli utenti non siano disponibili nemmeno alle aziende che offrono i servizi di messaggistica, e questo è possibile tramite i sistemi di cifratura come la crittografia end-to-end, che però attualmente è presente solo su WhatsApp. Le chat di Messenger o i direct di Instagram non sono protetti da questa tecnologia (anche se l’azienda afferma di volerla implementare quanto prima). Telegram, società autonoma con sede a Dubai, applica anch’essa una cifratura dei messaggi ed è sempre stata contraria a fornire dati relativi alle chat private. Mai come oggi grandi aziende private possono disporre di informazioni personali relative ai propri utenti, e se queste sono utili per fermare chi commette crimini è un conto, ma se le leggi vengono modificate ciò che può essere giudicato come crimine cambia. Il caso di Celeste Burgess è solo un esempio, ma conferma anche che negare il diritto all’aborto non eradica il fenomeno, ma lo trasporta in una dimensione di illegalità e pericolo per la salute della donna.