Chiariamoci: il Primo Maggio è una festa bellissima, che ci ricorda il valore del lavoro e tutti coloro che si sono sacrificati, fino alla morte talvolta, per affermarlo. È una festa bellissima ed è giusto darle il giusto valore, a partire dal primo articolo della nostra Costituzione. Che proprio al lavoro, al diritto al lavoro, affida il compito simbolico di architrave della Repubblica.
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Giusto festeggiare il Primo Maggio dunque, ma, per favore, risparmiamoci la retorica che spesso accompagna ricorrenze del genere, offuscandone il significato e rendendole sempre meno comprensibili, fino al limite del disinteresse, per chi invece quel lavoro con la L maiuscola non ce l’ha, l’ha perso, o non l’ha mai avuto.
Primo Maggio: tanti e tante al lavoro
Anche oggi saranno infatti tantissimi i lavoratori che non potranno festeggiare. Tutti gli addetti ai servizi, moltissimi di quelli al commercio, e la stragrande maggioranza di quel popolo delle partite IVA che, soprattutto in certi contesti anagrafici o professionali, rappresentano oramai la stragrande maggioranza.
Tutti i dati concordano nell’affermare che il lavoro precario, o saltuario, o ‘flessibile’, rappresenta ormai la realtà per una porzione sempre più ampia di cittadini italiani, non solo giovani o giovanissimi. Oggi i lavoratori a termine in Italia sono oltre 3 milioni: più del 30% di loro ha addirittura un contratto che non supera il mese di durata. E tra i dipendenti, anche a tempo indeterminato, si contano 4 milioni di uomini e donne con un’occupazione part-time, spesso involontaria. Quelli in somministrazione, ovvero assunti dalle agenzie interinali sono oltre 400mila. Ci sono poi i lavoratori autonomi o titolari di contratti “atipici” su cui non ci sono dati sufficienti. Numeri peraltro in costante crescita: negli ultimi 20 anni, dal 2004 a ora, il numero dei lavoratori a termine è praticamente raddoppiato.
Impieghi precari
In questa classifica l'Italia è seconda solo alla Spagna, che pure ha preso delle misure per combattere la precarizzazione del lavoro. E se guardiamo solo alla fascia di età compresa tra i 15 e i 30 anni, il dato diventa addirittura tragico: quasi la metà delle ragazze italiane under 30 ha un impiego a termine, una media di 10 punti superiore a quella dell’area euro e di altri Paesi limitrofi. Mentre la differenza di reddito annuale tra i lavoratori dipendenti della fascia di età compresa tra i 30 e 34 anni e quelli che hanno tra i 51 e i 55 anni è di circa 11mila euro per gli uomini e di circa 7mila euro per le donne, anche a causa del minor numero di ore lavorate, che ovviamente va a detrimento della progettualità e dei consumi.
Adottare un concetto di lavoro elettivo
E allora quello che ci piacerebbe oggi sapere, al di là dei discorsi celebrativi, è cosa intenda fare la politica per passare dal concetto di lavoro afflittivo a quello di lavoro elettivo. Dal lavoro che rende schiavi al lavoro che libera. Da quello pagato pochi spiccioli (in Italia l'11,8% dei lavoratori si trova in una situazione di povertà, vive cioè, pur lavorando, in una famiglia con un reddito netto inferiore al 60% della mediana a fronte del 9,2% dell'Ue a 28- dati Eurostat 2019 e quindi precedenti la pandemia) secondo il quale sarebbe necessario cambiare strategia per sostenere concretamente questi lavoratori. Cosa intenda fare per passare a quello che, sempre a norma di Costituzione, permette un’esistenza libera e dignitosa. Dal lavoro che rende poveri a quello che arricchisce non solo materialmente.
Oggi chi non festeggia non è un ‘crumiro’, è solo qualcuno che se non lavorasse perderebbe il posto (‘tanto fuori c’è la fila’), o che proprio non può permetterselo. Lavoratori che hanno bisogno di risposte non di parole. Di programmi non di ricordi. Di considerazione, non di speranze. Buona festa a tutti dunque. Soprattutto a chi non può festeggiare.