Era una decisione attesa, annunciata: la Corte costituzionale è tornata ad esprimersi in merito al Fine vita. Tra i temi più importanti in discussione quello dell’applicazione di uno dei quattro principi fissati dalla stessa Consulta nella ormai nota sentenza 242/2019 “Dj Fabo/Cappato”, quello della necessaria dipendenza dal trattamento di sostegno vitale per chi richiede di accedere al suicidio medicalmente assistito.
La vicenda di Massimiliano, in Svizzera a morire con l’Associazione Coscioni
Il caso di partenza era quello del toscano Massimiliano, morto in Svizzera a 44 anni grazie all’eutanasia. L’uomo, affetto da sclerosi multipla, tetraplegico e non più autonomo da anni, nel 2022 aveva lanciato un appello tramite l’associazione Luca Coscioni per accedere in Italia, a casa sua, al suicidio medicalmente assistito. Dato il prolungarsi dei tempi d’attesa per la decisione della Asl e dei giudici regionali, e le sofferenze insopportabili, Massimiliano era stato accompagnato in Svizzera per accedere alla morte volontaria accompagnato da Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli, che si erano autodenunciati al rientro per un atto di ‘disobbedienza civile’ alla Procura di Firenze. Se condannati dai giudici costituzionali, i tre rischiavano fino a 12 anni di reclusione.
Valutare caso per caso
Col verdetto di oggi la Consulta stabilisce che “i giudici dovranno valutare caso per caso” ogni singola vicenda giudiziaria riguardante la morte volontaria. Sarà dunque il giudice nella sua autonomia a valutare, “sulla base dei principi espressi nella sentenza già emessa nel 2019, se una persona è incriminabile in merito alla pratica del suicidio assistito”.
Terapie vitali anche quelle dei caregivers
In merito alla sentenza, la Consulta precisa poi che “la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019”. Dunque secondo il dispositivo di oggi, nell'ambito dei paletti già fissati cinque anni fa, ci sono più casistiche di cui tenere conto: “La nozione include quindi anche procedure normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o 'caregivers' che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
Si applichino i principi della sentenza 242/2019
La Corte costituzionale, nella sentenza sul suicidio assistito emessa oggi, ha espresso inoltre “il forte auspicio che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, fermo restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati”. E ha ribadito lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, “affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza”.
La reazione dei ProVita
“La Corte Costituzionale ha respinto tutte le questioni sollevate dai legali dell'associazione Coscioni sul fine vita, negando l’esistenza di un diritto assoluto a decidere come e quando morire e chiudendo la porta a una disciplina indiscriminata sul suicidio assistito e sull'eutanasia, che rischierebbe di indurre alla morte persone fragili depresse ed emarginate”, afferma Antonio Brandi, presidente di Pro Vita & Famiglia sulla sentenza della Corte Costituzionale.
Che però aggiunge: “È invece gravissima l'interpretazione estensiva della Corte sulla definizione di 'trattamenti di sostegno vitale’, una delle condizioni per accedere al suicidio assistito, includendo anche pratiche di assistenza sanitaria alla persona non a diretto supporto delle funzioni vitali di base. A seguito di questa interpretazione aumenta il numero di casi in cui si potrà aiutare una persona a suicidarsi, velocizzando la tragica deriva eutanasica che la Consulta ha inaugurato con la sentenza 2019 sul caso Dj Fabo”.