
Smart working in Italia, gli effetti sulle donne dopo due anni di pandemia. La Cgil: "Vanno disciplinati gli orari di lavoro"
Isolamento, alienazione, legami troppo virtuali, intensificazione del lavoro. Insomma, lo smart working in Italia è molto working, ma poco smart. Nel nostro Paese il lavoro agile, dopo due anni di sperimentazione forzata indotta dalla pandemia da Covid-19, mostra tutte le sue criticità e contraddizioni. Ci sono tante potenzialità, certo, ma dalla ricerca ‘Due anni di smart working. L’esperienza delle donne in Toscana’, curata da Sandra Burchi per Ires Toscana, quello che emerge sono soprattutto gli aspetti negativi, che meritano approfondimenti.

Isolamento, alienazione, legami virtuali, intensificazione del lavoro. Lo smart working in Italia è molto working e poco smart
Smart working, gli effetti sulle donne dopo due anni di pandemia
La ricerca è stata fatta in due parti, tra luglio e ottobre 2020 (60 donne coinvolte) e tra dicembre 2021 e marzo 2022 con le interviste di follow up alle partecipanti ai focus group della prima parte. Tra i rischi indicati la minore socialità sul lavoro, la minore cooperazione, la minore capacità nei processi organizzativi, la ‘cosiddetta ‘zoom fatigue’ ovvero l’abuso di connessioni alle piattaforme necessarie per le call. E ancora l’incremento dei dispositivi di controllo e la difficoltà nel rispetto e definizione dei tempi reali di lavoro. Senza contare che in molti casi lo smart working cosiddetto di fatto va a coprire le ore di permesso se non addirittura le ferie. Se poi sei donna la frittata è fatta. Oltre a quello lavorativo si aggiunge anche un carico maggiorato di cure familiari e domestiche perché, come raccontano le intervistate "tanto sei a casa" viene detto, e quindi… Ci sono naturalmente anche i lati positivi: facilitare l’adozione di orari e modelli di lavoro individualizzati che includono il concetto di fasce orarie, raggiungimento degli obiettivi e riduzione degli spostamenti. Il lavoro agile continua così a essere un obiettivo, in quanto può liberare un potenziale inespresso, anche organizzativo, costituire un guadagno in termini di autonomia, rispondere alla necessità di conciliazione con le altre attività quotidiane. Ma molto, se non tutto, viene lasciato alle capacità individuali, senza una rete di tutele e senza confini netti tra diritti e doveri dei lavoratori e (soprattutto) delle lavoratrici.La ricercatrice Laura Burchi: "Le stanze di casa diventate spazi di lavoro"
“Il lavorare da remoto, in regime di smart working o lavoro agile, emerso con la pandemia è stato con tutta evidenza un home working organizzato di fretta ma ha rappresentato la prova generale di uno scenario da continuare a decifrare”, dice la ricercatrice Laura Burchi che ha curato il rapporto. “Portato a casa il lavoro trova un'organizzazione interstiziale, fra le stanze di casa e i tempi di vita. Durante la pandemia le stanze delle case si sono attrezzate per diventare spazi di lavoro, il risparmio di tempo e di economie sperimentato con la riduzione degli spostamenti casa-lavoro si sono tradotti in un’organizzazione in divenire, sempre imperfetta, per far quadrare i tempi, per tenere in equilibrio produttività lavorativa e vita quotidiana. Un’organizzazione, diventata carico individuale, che conta su un’efficacia da rendicontare a distanza, attraverso sistemi di controllo telematici”, aggiunge Burchi. “Si tratta insomma di un’organizzazione del lavoro che si prevede possa reggere grazie alla facilità di interazioni tecnologiche ma conta, soprattutto, sulla capacità individuale di incorporare – letteralmente – operatività e produttività. È un pezzo di lavoro che sparisce e che “resta in testa”. Al punto che “il rischio di una intensificazione dello sfruttamento (e dell'auto sfruttamento) si confonde con la sfida di raggiungere in autonomia una buona organizzazione del lavoro e del tempo”.
La segretaria regionale della Cgil Dalida Angelini: "Lo smart working deve essere contrattualizzato e va disciplinato un orario di lavoro"