La tecnologia occupa ormai gran parte delle nostre vite, personali e lavorative. Di sfide negli ultimi anni se ne sono presentate tante: web, social e ora l’intelligenza artificiale, che più di tutte forse mina un concetto che al mondo del giornalismo sta molto a cuore, quella della credibilità, della verità. Di questo e molto altro si parlerà sabato 19 ottobre durante la quarta edizione del Festival di Luce! (magazine online del gruppo Monrif). Di disinformazione, in particolare, parleremo con Ruben Razzante, professore di Diritto europeo dell’informazione, di Diritto dell’informazione e di Regole della comunicazione d’impresa all’Università Cattolica di Milano e insegnante di Diritto dell’informazione al Master in giornalismo dell’Università Lumsa di Roma e ai corsi di formazione promossi dall’Odg.
L’Intelligenza artificiale può essere un rischio per il giornalismo o può essere una possibilità?
“Credo che come ogni tecnologia, anche questa abbia dei rischi e delle opportunità. Bisogna ovviamente massimizzare le seconde e marginalizzare i primi. Sono fiducioso sul fatto che questa IA possa diventare un supporto al lavoro dei giornalisti per lo svolgimento di compiti abitudinari, lasciando così più tempo a loro per gli approfondimenti, per le valutazioni alla luce della deontologia professionale di quelle che sono le situazioni da raccontare ai cittadini. Con degli algoritmi ben addestrati, l’IA può aiutare i giornalisti a selezionare meglio le fonti, può aiutarli a fare fact-checking. Però è chiaro che il lavoro giornalistico inteso come sensibilità, come fiuto e valutazione dell’interesse pubblico della notizia e gerarchizzazione dei particolari, è un lavoro non sostituibile. Non vedo una minaccia nell’intelligenza artificiale. Vedo sicuramente un’opportunità. E’ chiaro che ci può essere il rischio che alcune aziende editoriali minori, dovendo sostenere dei costi per adottare queste soluzione, finiscano per sostituire il lavoro giornalistico con queste applicazioni. Ma io credo che questo non accadrà”.
La comunicazione social, tramite le nuove tecnologie, fa perdere un po’ di quello che è lo spirito critico. Tutti possono comunicare e per questo i rischi delle deepfake, create con l’IA e diffuse con le nuove tecnologie aumentano. Come si possono combattere?
“Due strumenti. Il primo è un insieme di soluzioni di certificazione, di validazione, di etichettatura delle informazioni attendibili. Una soluzione insomma di tipo tecnologico. Il secondo è il potenziamento della formazione e dell’autotutela, dell’autodisciplina, dell’eduzione civica digitale, cioè di tutte quelle forme di autoconsapevolezza che vanno incentivate e che possano aiutare i produttori di informazioni, ma anche i fruitori, il pubblico, gli utenti a sbagliare di meno. Cioè a saper riconoscere le informazioni attendibili da quelle che non lo sono. In questo caso si tratta di uno strumento educativo“.
Da studioso, come si sono evoluti i social negli ultimi anni?
“Credo che i social abbiano un po’ perso il loro smalto iniziale. Sono in una fase di ripiegamento perché la fase della socializzazione spinta si è un po’ fermata. C’è stata una contrazione del pubblico. Molti utenti sono usciti, si sono stufati. C’è sicuramente una fase di stanchezza, forse post lockdown, post covid quando la gente stava in casa e ha raggiunto il picco delle interazioni social. C’è stata una degenerazione della comunicazione social perché molte persone hanno iniziato a usarli come sfogatoio delle proprie pulsioni individuali. In secondo luogo, le piattaforme social hanno contribuito sempre meno a valorizzare l’informazione di qualità. I social sono quindi in una fase di crisi dovuta al fatto che un po’ di pubblico se ne è andato, anche perché in essi si trova più insulti che notizie attendibili”.
Facciamo un passo indietro e torniamo nel 2020 quando lei viene nominato esperto dell’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al Covid-19 sul web e sui social network. Quanto è stato difficile arginare questo fenomeno?
“Lì sono stati fatti sicuramente degli errori perché il Governo con quella task force, della quale ho fatto parte, ha avuto certamente una buona idea: quella di cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di verificare maggiormente le notizie riguardante la salute. Abbiamo fatto uno sforzo di sensibilizzazione, non abbiamo fatto nessuna censura delle informazioni che viaggiavano in rete. Abbiamo semplicemente voluto, in un documento che abbiamo redatto per il governo Conte, indicare delle strade per riconoscere più facilmente le notizie riconducibili a fonti istituzionali. Credo anche che in materia di salute ci siano ancora tante fake news e che sia necessario smascherarle perché possano causare danni alle persone e credo che l’IA possa dare un contributo prezioso alla lotta a queste notizie false”.
Quanto hanno perso in termine di socialità le nuove generazioni?
“Credo che quello che io chiamavo il ‘popolo del divano’ sia veramente rimasto tale. Le nuove generazioni si sono purtroppo adagiate. Quell’esperienza tragica ha prodotto un impigrimento. C’è stata una rinuncia alla socialità, un adagiarsi sulle abitudini tecnologiche e questo certamente non è stato superato. È un qualcosa che le nuove generazioni hanno introiettato. È proprio uno stile di vita. La socialità pre-covid non è assolutamente tornata”.
Quanto è invece complicato contrastare razzismo o istigazione all’odio sulle piattaforme digitali, con i social media che possono inasprirli ai massimi livelli?
“E’ una battaglia importantissima. Credo moltissimo nel ruolo prezioso che l’educazione digitale può giocare per il contrasto all’hate speech. Ci sono tanti contenuti d’odio che circolano in rete. Credo che sia fondamentale la collaborazione delle piattaforme per contribuire a rimuovere i contenuti d’odio che viaggiano in modo virale. È fondamentale che quest’ultime individuino e puniscano i colpevoli perché il linguaggio d’odio oltre che inquinare la rete, fa ammalare gravemente le democrazie. Bisogna fare in modo che i social diventino un luogo di dialogo, di confronto, anche di azzeramento di alcune discriminazioni. E solo con un’educazione civica digitale, anche nelle scuole e che parta dalle istituzioni e che veda alleati i colossi del web, questo obiettivo si può raggiungere”.
È fondatore del portale Diritto dell’informazione. Quanto crede sia importante essere informati al giorno d’oggi?
“Questo portale ha due caratteristiche. La prima è quella di pubblicare notizie neutrali e imparziali perché l’informazione è un bene pubblico di tutti i cittadini a prescindere dalle loro idee. Non ci saranno mai contenuti faziosi o di parte. Il secondo scopo è quello di raccontare con un linguaggio divulgativo, con uno stile sobrio e comprensibile da parte di tutti, le questioni tecniche che riguardano il diritto dell’informazione che non è una materia per gli addetti ai lavori, ma è un qualcosa che riguarda tutti i cittadini utenti. Perché quest’ultimi sono fruitori a vario titolo delle informazioni pubbliche ed è giusto che possano comprendere le dinamiche del sistema mediatico”.