
Crocefisso Dentello, autore di "Scuola di Solitudine"
Cesano Maderno. “Il dolore per la perdita di mia madre mi ha tolto la vergogna. Grazie a quella perdita irrimediabile mi sono scoperto capace di raccontarmi senza pudore”. Crocifisso Dentello dopo “Tuamore” in “Scuola di solitudine” (La nave di Teseo, 2024) torna a mettere il dito nella piaga di un'infanzia e una prima adolescenza segnate dalla sofferenza infinita di sentirsi sbagliato e dal terrore perpetuo delle angherie e degli insulti dei coetanei.
Una storia di bullismo, dunque. Ma ancora più devastante per il 12enne Crocifisso sono il disprezzo e il rifiuto violento e sprezzante del padre, incapace di accettare anche solo l'idea di un figlio effemminato e debole, radicalmente diverso dalle attese di un muratore di origini siciliane, vittima dei più biechi pregiudizi e stereotipi sulla mascolonità.
Rifiutato dal padre
Il conflitto tra i due è perfettamente sintetizzato nell'episodio narrato a pagina 54. “Una sera, in attesa che mio padre rincasi dal lavoro, resto solo in stanza mentre Concetta raggiunge mia madre in cucina. Mia sorella ha lasciato una delle sue Barbie sul letto. L'afferro, le cambio vestitino e la manovro come fosse un burattino, pronto a pronunciare un monologo con una vocina posticcia. La porta resta socchiusa sul corridoio illuminato. ‘Che cazzo fai?’ Sento ringhiare d'improvviso mio padre. (…) Mi strappa dalle mani la Barbie e con la bava alla bocca comincia a imprecare. ‘Cosa sei? Una femminuccia che giochi con le bambole? Cosa sei, un frocio che giochi con le bambole?’ (…) Il suo palmo di muratore, forte e ruvido, mi stordisce. Colpisce alla cieca, con furore. Mia madre, accorsa per il trambusto, lo avverte: ‘Cristoforo, basta, così lo ammazzi’. Mio padre vibra ancora dei colpi, sempre più deboli. Quando rifiata, tira fuori dalla tasca un accendino e dà fuoco ai capelli della Barbie. (…) Mia madre lo fissa con rimprovero, lui ricambia con uno sguardo da psicolabile e sibila: ‘Tuo figlio con me non c'entra niente. Con chi lo hai fatto?’”.
Non meno crudele è un altro episodio, sempre riferito al padre: “Una domenica si disfò di un gattino che non potevamo tenere gettandolo dall'auto in corsa. (…). Stavo seduto dietro, ignaro. Vidi questo batuffolo di pelo volare dal finestrino al margine della strada. Odiai mio padre di un odio ferocissimo”. Il padre non si rassegna all'idea di questo figlio per lui incomprensibile e inaccettabile. Tenta di “correggere” quella che considera un'aberrazione e lo costringe a sperimentare attività “da maschio”: prima il calcio, poi il karate. Con l'unico risultato di imporgli l'ennesima pubblica umiliazione, quando “Croci” scoppia a piangere in mezzo al campo. Addirittura anni dopo quell'uomo che si fa fatica a definire genitore confessa a Crocifisso di aver pensato di abbandonarlo in un campo rom per poi dire di averlo perso di vista in un centro commerciale. Solo il timore di non essere creduto dalla moglie e dalla polizia lo spinge a desistere dall'insano progetto.
Un bersaglio ideale per i bulli
La vita di Crocifisso ragazzino è dunque un continuo tormento, inframmezzato a pomeriggi passati davanti alla tv ingurgitando una merendina dopo l'altra, nell'inutile tentativo di colmare il vuoto e placare l'ansia. “Sapevo di peggiorare la mia situazione così, ma non riuscivo a impedirmi di ingozzarmi. Sono sempre stato grasso, e ho sempre detestato tutto ciò che piaceva ai miei compagni e a mio padre, dal calcio al pugilato ai film d'azione. Ero un ‘concentrato di estraneità’. Sentivo di non appartenere al mondo dei maschi, ma neppure a quello delle ragazze. Questi due fattori mi hanno reso il bersaglio ideale dei coetanei. Il mio errore è stato illudermi che, se non avessi reagito, i miei aguzzini si sarebbero stancati di perseguitarmi. E con il mio silenzio io quei bulli li ho protetti. Mi sono chiesto per anni: perché non riesco a farmi piacere le stesse cose? Spesso il bullizzato quando reagisce si autoviolenta e aderisce all'identità del bullo. Io invece volevo difendere la mia identità di fronte ai compagni e alla mia famiglia. Non so come ho fatto a resistere. Fatto sta che anche una volta adulto ho continuato a scontare le mie difficoltà relazionali anche sul lavoro”.
“Scuola di solitudine”
E non c’è da stupirsi, dal momento che, come racconta “Scuola di solitudine”, la sorte sembra accanirsi sul tormentato 12enne: l’unico coetaneo con il quale è riuscito a instaurare un rapporto “simile” a un’amicizia muore in un incidente stradale. Un altro compagno si accosterà a lui, e la storia di questa relazione difficile e ambigua è il cuore del romanzo.
Il piccolo Crocifisso è insomma un “perdente dichiarato” che non esita a mettersi a nudo, e attraverso questo gesto ottiene il suo riscatto. “Sognavo di vivere di scrittura, e ho raggiunto l'obiettivo: ho pubblicato quattro romanzi e collaboro a un importante quotidiano. In un certo senso devo ringraziare i miei 'persecutori': se non avessi sofferto tanto non avrei raggiunto la consapevolezza e il coraggio che mi consentono di condividere la mia storia e ricucire almeno in parte le mie antiche ferite.
Credo di essere riuscito a perdonare anche mio padre – spiega Dentello –: ora che è vecchio, solo e provato dall'età, forse è arrivato a capire la mia fragilità di allora e persino a volermi bene, a modo suo. Viviamo insieme e condividiamo la quotidianità e il dolore per la perdita di mia madre. In fondo penso che anche lui sia in un certo senso una vittima: dell'ignoranza, della mentalità miope e infarcita di pregiudizi in cui è nato e cresciuto. Non aveva gli strumenti per affrancarsi da quella 'cultura' e vedeva con aperta ostilità la mia passione per lo studio e per i libri: non faceva che rivendicare il fatto che potevamo mangiare grazie ai soldi guadagnati con la fatica del suo mestiere di muratore. Ora però vede che anche io mi guadagno da vivere e provvedo anche a lui, e forse è arrivato a nutrire una tacita forma di rispetto nei miei confronti”.
Una testimonianza di grande sofferenza e discriminazione che porta con sé un messaggio di speranza, dunque, ma non un romanzo ‘militante’. “Racconto ciò che ho vissuto, lascio al lettore ogni considerazione. Mi auguro che altri ragazzi in difficoltà possano trovarci una qualche consolazione nel constatare di non essere né i primi né gli unici a sentirsi presi a calci dalla vita, e magari anche che possano evitare di ripetere i miei errori. Se poi il libro finisse tra le mani di un genitore omofobo o di un bullo che si diverte a perseguitare i coetanei ‘sfigati’, spero possa indurli a qualche sana riflessione e magari a passare dall'ostilità alla comprensione o almeno a mettere in discussione la loro intolleranza”.