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Una donna su tre lascia lo sport per la famiglia. Ora Mamanet ribalta i ruoli: mamme in palestra e i partner le aiutano #atletaemamma

di SOFIA FRANCIONI -
5 ottobre 2021
luce2

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In Italia c’è un gap preoccupante che divide donne e uomini: si consuma in modo nascosto, quasi impercettibile nei campi da calcio, tra le reti del tennis e della pallavolo, ma anche al chiuso delle palestre. Le donne, infatti, soprattutto quando diventano mamme o sono alle prese con altri carichi familiari, abbandonano lo sport  (leggi l'articolo). Come fotografato nel 2015 dall’Istat, soltanto 1 donna su 5 nel nostro Paese pratica sport in maniera saltuaria e soltanto il 27% del totale dei tesserati Coni è donna (dai dati 2017 dell’Osservatorio). Ma perché i due generi non riescono ad avere pari opportunità nemmeno quando indossano maglietta e calzoncini di una divisa sportiva? La recente ricerca “Jump the gap - Oltrepassare le barriere dello sport di base per le donne”, condotta dall’Università degli studi di Padova, promossa da AiCS, Acsi, Csen e Libertas con annesso progetto, prende in mano questi dati e risponde: è stereotipia. Il motivo infatti è proprio il genere. Come  la responsabile del progetto Jump the gap, Valeria Gherardini di Aics spiega a Luce!: “Il problema è che ancora oggi la donna è vista come la custode del nucleo familiare. Compagni, mariti, figli non fanno abbastanza per deresponsabilizzarla: dovrebbero andarle incontro per svolgere le attività domestiche, prendersi cura della prole e della famiglia, ma non lo fanno perché ritengono di non essere loro la soluzione o non si sentono chiamati in causa. Dall’altro lato, è la donna stessa a non cedere questo spazio”.  

Speranze dagli adolescenti

Dalla ricerca emerge infatti che 1 donna su 3 indica gli impegni familiari tra i primi motivi per cui abbandonano lo sport (1 su 6, invece, indica l’avanzamento di carriera) e che per il 40% degli intervistati, la donna si realizza ancora oggi soprattutto nella famiglia. “Una versione stereotipata, espressa dalla donna stessa, che risulta più forte nelle persone adulte: se a rispondere sono gli adolescenti, infatti, la percentuale di chi vede nella famiglia un ostacolo per le donne scende al 9%. Segno che i giovani - spiega Gherardini - sono meno pervasi dallo stereotipo che vuole la donna unica responsabile della famiglia e che quindi sono i nostri alleati per cambiare il futuro dello sport, almeno di quello di base”.

Creare il diritto della famiglia allo sport

La “questione femminile” nello sport però è un problema avvertito soltanto dal 21% dei 4.600 intervistati. “Dai testi analizzati - rimarcano i ricercatori dell’Università degli Studi di Padova – emerge un’alta deresponsabilizzazione rispetto a ciò che sarebbe necessario fare”. La maggior parte degli intervistati, infatti, ammette che le differenze di genere nello sport ci sono, ma lascia alle istituzioni idee e soluzioni. Per questo, i quattro entri promotori della ricerca, con il sostegno economico di Sport e Salute Spa - azienda pubblica italiana che si occupa dello sviluppo dello sport nel paese - hanno progettato una serie di azioni a breve e lungo termine per abbattere il gender gap sul campo. Un “impegno all’azione” diviso in due piani: “Da una parte dobbiamo cambiare l’immaginario, la ‘testa’, del nucleo familiare e costruire una società sportiva ideale dove al centro ci sia il diritto della famiglia allo sport, creando spazi ed eventi dove soddisfare le esigenze di tutti. Dall’altro vogliamo incentivare la presenza delle donne nel fare sport, prevedendo voucher sportivi gratuiti per i figli, le cui mamme fanno sport e sport gratuito per le donne che accompagnano gli atleti agli eventi sportivi nazionali organizzati dagli enti promotori”. Ma anche: formare i tecnici riguardo al mondo femminile nello sport, portare avanti una capillare campagna di comunicazione sui territori “che metta in luce le donne che fanno sport e i servizi che le associazioni e società sportive locali possono garantire alle donne” e programmare la ‘palestra ideale’ a misura di donna, con la possibilità di portare i figli durante le attività sportive.

Monica, sportiva e mamma: "Lo sport aiuta a farcela"

Monica Zibellini al centro assieme alle mamme di Mamanet

“Non è semplice per una mamma lavoratrice o anche solo mamma continuare a praticare sport, perché la famiglia è sempre tutta sulla nostre spalle. Siamo noi donne le prime a non voler condividere il peso della cura familiare con il partner o i figli, perché la sentiamo come una responsabilità solo nostra”. A parlare è Monica Zibellini, responsabile nazionale di Mamanet Italia, sportiva e mamma, che nella sua vita è sempre riuscita a portare avanti impegni familiari e lavorativi, insieme alla passione per lo sport. “Io lavoro nello sport, per me è più semplice, ma ci sono stati periodi in cui l’ho abbandonato perché credevo di non farcela. E invece lo sport aiuta a farcela meglio: a combattere lo stress, a ritrovare una sorellanza che spesso ci manca, a trasmettere ai nostri figli i giusti valori e a essere più positive anche tra le mura domestiche” Tennis, mountain bike, calcio a cinque, basket: Monica – fin da ragazza – ha (quasi) sempre trovato il tempo per praticare sport, ma “da quando ho scoperto Mamanet ho visto la differenza”. Grazie al sostegno di Aics, nel 2015 quest’organizzazione sociale ha importato da Israele il cachibol, una disciplina che fonde pallavolo e palla rilanciata riservata alle mamme e alle donne over 30.

Due ore due giorni alla settimana

“Mamanet cuce lo sport sulle donne, va incontro alle loro esigenze e per questo riesce ad attirarne tante”, sostiene Monica. In Italia, il cachibol è infatti diffuso in sette regioni e sono più di 800 le donne che lo praticano: il 16 e il 17 ottobre a Forlì è in programma il campionato nazionale. “Ci ritagliamo due ore per due giorni a settimana tutte per noi”, dice Monica, “Uno spazio personale che diventa anche il modo per ribaltare i ruoli, dato che a quel punto è la famiglia, specialmente i partner, che ci aiutano”. Mamanet sostiene la passione dello sport delle donne, andando incontro alle loro esigenze: “Durante le partite o gli allenamenti, ad esempio, sono previste delle attività ludiche anche per i nostri figli: giochi da tavolo, spazi dove fare i compiti o addirittura delle vere e proprie ludoteche. Nella squadra ci aiutiamo, siamo unite e per questo anche i problemi quotidiani diventano più leggeri.

"Sentirsi di nuovo bambine"

La nostra capitana ad esempio ci sprona a partecipare sempre agli allenamenti, anche chiamandoci una a una. Capita di pensare di non farcela, ma lo sport, ripeto, aiuta a fare tutto meglio. Le donne che praticano il cachibol dicono spesso di 'sentirsi di nuovo bambine': una mamma che non perde questa ingenuità e non rinuncia al divertimento, come fa ad essere peggiore?”

Laura Lugli

#ATLETAEMAMMA: la battaglia di Luce!

Fin qui abbiamo parlato delle difficoltà delle madri  di famiglia nel praticare sport a livello amatoriale o dilettantistico. Fra le atlete "professioniste" la vita non è più agevole. La scorsa primavera fece scalpore il caso di Laura Lugli, pallavolista licenziata dal Pordenoine volley dopo aver annunciato di essere rimasta incinta. La società non si limitò a risolvere il rapporto, ma avanzò una richiesta di danni per una sorta di "inadempimento contrattuale": se è riconducibile a questo, la decisione di dare alla luce un figlio... (leggi l'articolo).

Muovendo dal caso Lugli, Luce! ha effettuato un'approfondita inchiesta sul fenomeno, Scoprendo un caso inverso, quello di Alice Pignagnoli, portiera di calcio cui venne rinnovato il contratto durante la gravidanza (leggi l'articolo) e lanciando l'hastag #atletaemamma battendosi perché sia sempre più utilizzata l'indennità prevista da recenti normative destinata alle donne che praticano attività sportive ed impossibilitate a praticarle durante la gravidanza e nel periodo successivo al puerperio (leggi l'articolo)