La banalità del male, l’ineluttabilità di raccontarlo perché sia da monito e non debba riaccadere. Monito necessario, ma non sempre ascoltato perché se lo fosse non ci sarebbero lo sterminio di Gaza e la guerra in Ucraina e i mille conflitti nascosti soprattutto in Africa.
"20 days in Mariupol”
Una speranza c’è: le lacrime che il regista di “20 days in Mariupol” Mstyslav Cernov ha versato sul palco del Dolby Theatre dove il suo documentario ha ricevuto un Oscar strameritato.
Un messaggio pieno e convincente: “Quando correvo con la macchina da presa sotto le bombe sganciate dai russi ho capito ancora di più quale fosse il mio dovere, raccontare questa guerra assurda dalla parte delle vittime innocenti senza fuggire dalla realtà, denunciando i crimini che si stavano commettendo”.
"La zona di interesse”
Un documentario indispensabile, come lo è un bel film, complesso e simbolista: “La zona d’interesse”. Fra i suoi due Oscar quello che ha colpito di più è per il sonoro: il male può anche essere solo uditivo, un rumore, uno sferragliare di carrozze piene di deportati, i loro lamenti mentre subiscono le torture e vengono portati ai forni crematori di Auschwitz a passare per un camino, come cantava Guccini. Intorno la vita scorre banale e tragica, insensibile e drammatica: “Voglio fare crescere le rose perché le piante possano coprire la vista del muro del campo”, dice la protagonista rendendosi così complice del marito che è il carnefice di quei poveretti.
La memoria può portare a una risoluzione di ogni male a patto che si possa fare vincere la ragione sulla demonizzazione della realtà. La cultura, l’arte, il cinema, possono dare messaggi straordinariamente importanti anche se talvolta complessi: siamo noi a doverli cogliere. Quelli che vengono da molti dei film in corsa o premiati hanno sovrastato il silenzio in cui troppo spesso la gente si rifugia, una sorta di “Zona d’interesse” nella quale è più facile continuare a sorridere e a godere delle libagioni del presunto vincitore invece che guardare ai vinti e ricordarci sempre che esiste un limite a tutto ma che dobbiamo riuscire a capire e a perdonare quando si può.
"Oppenheimer”
Ed è importante che anche un film come “Oppenheimer”, il trionfatore di Los Angeles, in fondo chieda perdono per la guerra e sia un inno contro di essa anche se analizza la vicenda controversa e affidata alla storia di colui il quale con i suoi studi fece realizzare la bomba atomica che ha scosso le coscienze del Novecento e ha cambiato radicalmente i suoi ideali. Anche l’uomo più buono può diventare artefice di una malvagità e affidarsi poi a una benevolenza salvifica che ne assolva gli orrori se non causati direttamente.
“Killers of the Flower Moon”
Strano che all’Academy sia piaciuto questo film (la storia può essere rimossa?) e non abbia avuto il coraggio di premiare con almeno un paio di statuette un film che invece denuncia una sorta di pulizia etnica interna, quella dei nativi americani. “Killers of the Flower Moon” è un capolavoro talmente straordinario che era impossibile non candidarlo, ma è probabilmente un film talmente critico sulla violenza borghese contro le minoranze impersonate dalla tribù indiana Osage che il puritanesimo americano non se l’è sentita di sedare un vulnus per molti versi ancora aperto.
E così sul banco dei sacrificati degli Oscar sono saliti le vittime di un vero e proprio genocidio e anche un’attrice nativa americana, Lily Gladstone, che l’Oscar lo meritava eccome. La pace interna con i “pellerossa” è lungi da essere completata? Dicono che il film di Martin Scorsese abbia pagato un non rilevante successo al botteghino: i nativi americani possono così aspettare.
“War is over”
Guerra, genocidio, sterminio, parole che fa ribrezzo solo nominare. Forse la parola guerra è quella più lieve grazie anche al corto di animazione che ha vinto il premio Oscar di categoria: “War is Over”, ispirato dal brano di John Lennon e Yoko Ono – e realizzato da Brad Booker e Dave Mullins con la consulenza di Sean Ono Lennon - “Happy Xmas”
“E così questo è il Natale (la guerra è finita), per i deboli e per i forti (se lo vuoi), per i ricchi e per i poveri (la guerra è finita). Il mondo è così sbagliato (se lo vuoi) e così buon Natale (la guerra è finita) per i neri e per i bianchi (se lo vuoi) per i gialli e per i neri (la guerra è finita), fermiamo tutte le guerre (adesso)”.
Nel corto due soldati contrapposti giocano una partita di scacchi e la mente va a quella fra Antonius Bock e la Morte ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Per quanto la partita potrà essere lunga, alla fine bisognerà rispettare i patti e magari cercare di salvare più gente possibile. La guerra è maledetta, ovunque venga combattuta.
"Io capitano”
E infine il film italiano in gara e sconfitto. “Io capitano” un messaggio forte lo ha mandato nelle coscienze. I due cugini in fuga da fame, povertà, schiavismo dal Senegal arrivano da noi (però come sarà la loro vita Matteo Garrone e Massimo Ceccherini non ce lo spiegano) sfidando ogni tipo di congiura, anche quella dei trafficanti. E’ ineludibile il dramma, la donna morirà nel deserto e sarà impossibile aiutarla, ma in fondo una speranza questa pellicola ce la dà.
Il cinema deve essere anche questo, Barbie a parte.