"Non ne parliamo più": ferita aperta per l'Algeria e memoria scomoda della Francia

Vittorio Moroni ha realizzato con Cécile Khindria hanno realizzato un docufilm sul trauma subito dagli algerini archìs dopo l'indipendenza

di CLAUDIA CANGEMI -
27 dicembre 2023
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Francia-Algeria: la storia coloniale sembra superata ma il trauma resta aperto. Parola di Vittorio Moroni. Il grande successo di film come “C'è ancora domani” e l'apprezzamento per altri titoli, da “Cento domeniche” a “Palazzina Laf”, dimostrano la vitalità del cinema italiano d'autore. Eppure altre opere di non minore qualità passano come meteore nelle sale. E soprattutto incontrano difficoltà a farsi produrre e distribuire. È il caso di “L'invenzione della neve”, l'ultimo film di Moroni, presentato e molto ben accolto alle Giornate degli autori del Festival di Venezia. Ancora più difficile portare a termine e diffondere opere appartenenti al genere del documentario, per quanto valide e importanti siano.
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Una donna algerina che ha raccontato la sua testimonianza

Il documentario "Non ne parliamo più”

Non ne parliamo più”, produzione italo-francese diretta dallo stesso regista italiano insieme a Cécile Khindria (entrambi firmano anche sceneggiatura, fotografia e montaggio) ha vinto il gran premio della giuria al Festival di Torino e ottenuto diversi altri riconoscimenti. Due settimane fa è stato giudicato il miglior documentario italiano e ha ottenuto il premio della giuria Dams al festival Ridf (Roma international documentary festival). Eppure stenta a essere distribuito. In Italia è solo sulla piattaforma Zalab e dieci giorni fa è stato trasmesso dall'emittente France 24 in vari Paesi del mondo, tra cui il nostro, in 4 lingue (francese, inglese, arabo e spagnolo). Sulla stessa piattaforma da pochi giorni è disponibile nella versione da 52 minuti. Ne parliamo con l'autore Vittorio Moroni, valtellinese di nascita e romano d'adozione.

Una vicenda scomoda per la Francia

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Vittorio Moroni e Cécile Khindria hanno realizzato il documentario "Non ne parliamo più" sul trattamento riservato agli algerini dopo l'indipendenza dai francesi

Qual è il tema di "Non ne parliamo più"? "È un viaggio in una realtà quasi sconosciuta persino in Francia. Nel 1962, quando l'Algeria ottenne l'indipendenza dopo una lunga guerra, l'esercito francese si ritirò dal Paese. A quel punto centinaia di famiglie di algerini considerati –a ragione o a torto– 'collaborazionisti' (chiamati archìs) furono sottoposti a ritorsioni, minacce, torture e quindi costretti a fuggire per evitare di essere uccisi. Pensavano che andando in Francia avrebbero avuto un'altra possibilità, invece hanno avuto una grande delusione. Qui poi era troppo scomodo parlarne, li hanno isolati, dai francesi e anche dagli altri immigrati, messi nelle case popolari di un campo chiamato Bias, vicino a Marsiglia, senza una scuola interna, senza sanità. Per 15 anni sono rimasti chiusi in quel 'villaggio', poi hanno avuto la possibilità di lasciarlo. Ma molti sono rimasti: non sapevano dove andare, alcuni erano analfabeti e non conoscevano una parola di francese. Alcune decine di famiglie vivono ancora lì". Come è nata l'idea del film? "È la 'costola' di progetto più vasto. Una serie di doc sul tema: quando la grande Storia fa irruzione nella vita di un individuo e di una famiglia e la sconvolge.
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Molti archìs sono rimasti nel villaggio dove sono stati confinati dai francesi fino ad oggi

L'intento si è rivelato troppo ambizioso rispetto alla possibilità di produzione, così ci siamo concentrati sul primo film, abbiamo iniziato a lavorarci, sentendoci però troppo 'esterni' per essere ammessi a quella memoria. Oltretutto la pandemia imperversava ancora in tutta Europa. Abbiamo girato a vuoto finché abbiamo trovato Sara, nipote trentenne di un archì: era appena diventata madre e ha deciso che era venuto il momento di scavare nella scomoda memoria della sua famiglia. Essere con lei ha cambiato le cose, una dopo l'altra le persone hanno abbassato la guardia accettando di parlare della propria dolorosa esperienza".

"Ho vissuto sentendomi una bastarda": il doppio trauma

Perché il titolo "Non ne parliamo più"? "Queste famiglie hanno subìto un doppio trauma: accusati del più infame dei tradimenti, hanno dovuto abbandonare l'Algeria e andare in esilio, trovandosi poi a vivere in un Paese che non ha mai nascosto diffidenza e disprezzo nei loro confronti. Tra le testimonianze che abbiamo raccolto c'è quella di una zia di Sara, che ha detto: 'Ho vissuto la mia adolescenza in Francia sentendomi una bastarda. Per i francesi ero troppo algerina per gli algerini ero troppo archì'. Disagio e sofferenza hanno indotto molti, se non tutti, al silenzio”.
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Le vittime raccontano ai registi un doppio trauma: accusati di tradimento in patria e costretti all'esilio, e discriminati in terra francese

Con la complicità dei francesi... "Una vergogna che il Paese ha preferito dimenticare. Una vergogna che il governo francese ha impiegato decenni ad affrontare. Ci sono voluti 60 anni perché la Francia si scusasse, 60 anni perché i discendenti dell’impero coloniale riconoscessero finalmente i loro errori e chiedessero perdono agli archìs. Mentre la Francia celebrava il 60° anniversario della fine della guerra d’Algeria, l'anno scorso il presidente Emmanuel Macron si è scusato per la prima volta, di persona e attraverso la promulgazione di una nuova legge, per aver tradito gli archìs alla fine della guerra respingendoli, internandoli o abbandonandoli a un tragico destino con le loro famiglie".

Passato, presente e futuro dentro la telecamera

Conflitti del passato che fanno pensare al presente... "Proprio così, proviamo a immaginare cosa accadrà in tanta parte dell'Ucraina una volta conclusa la guerra in corso. Le guerre civili hanno conseguenze terribili nel periodo in cui si consumano e nei decenni a venire, a maggior ragione se la comunità internazionale non può o non vuole favorire una qualche forma di riconciliazione.
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Ci sono voluti 60 anni perché la Francia chiedesse scusa agli archìs

L’unico modo che conosciamo per interrogarci sul destino e sul significato del continente in cui viviamo, che si sta faticosamente costruendo, l’Europa, è quello di usare il nostro mestiere, il nostro sguardo, la nostra telecamera, e spingerla negli angoli più controversi e meno conosciuti della Storia recente. Cercare di comprendere macro-eventi come il colonialismo attraverso le storie esistenziali dei testimoni, concentrarci su domande inquietanti e significative su chi siamo stati e chi siamo". Che momento è questo per il genere documentario? "C'è stata una specie di sbornia rispetto al documentario, dopo che si è scoperto uno zoccolo duro di spettatori molto più forte e disponibile del previsto. Ci sono stati molti investimenti ma ora siamo in una fase calante purtroppo. Le piattaforme che hanno intercettato una grande parte delle proposte ora sembrano muoversi verso prodotti più facili e semplici. Spero che i nove premi collezionati da 'Non ne parliamo più' in tutti i festival cui ha partecipato servano a dare a progetti dello stesso genere una migliore credibilità e aprano la strada a finanziamenti adeguati".