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Un anno di guerra in Ucraina, il ricordo di Antonella Guidi: "Bambini vittime da sempre"

Il 24 febbraio 2022 le truppe russe entravano nel Paese, oggi l'anniversario dello scoppio delle ostilità. L'esperta del Cnr racconta la sua esperienza di servizio civile negli orfanotrofi di Kiev

di ELSA TOPPI -
24 febbraio 2023
Antonella Guidi orfani Ucraina 3

Antonella Guidi orfani Ucraina 3

Se dovessimo raccontare con una foto il primo anno di guerra tra Russia e Ucraina, sicuramente in quella foto ci sarebbe un bambino. In un anno li abbiamo visti piangere in braccio ai papà che partivano al fronte, camminare da soli verso le frontiere europee con un numero in tasca, sui letti degli ospedali pediatrici avvolti in qualche coperta di fortuna, tra le lacrime. Ma i bambini in Ucraina sono vittime da sempre. Tanto che Kiev è chiamata la terra degli orfani. Un dramma a cui si è sommato l’orrore della guerra. A raccontarlo a Luce! è Antonella Guidi, attualmente in forze all’Unità Relazioni Europee e Internazionali del Cnr, che nel 2008, quando era appena iniziata la prima crisi tra Russia e Ucraina, svolgeva servizio presso gli orfanotrofi ucraini per conto di una onlus di Vicenza. Dottoressa Guidi, perché gli orfani in Ucraina rappresentano un grande problema? "Quando ho svolto attività di servizio civile in Ucraina, dal 2008 al 2009, il numero di orfani era impressionante e costituiva un problema sia gestionale che economico. Oltre che essere il segno tangibile di un forte disagio sociale. Nel 2014 il problema si è acuito, perché questo Paese voleva entrare nella Comunità Europea e, tra le varie garanzie richieste, c’era pure il numero di orfanotrofi. Così lo Stato ucraino ha cominciato a chiuderli, assembrando sempre più bambini e ragazzi in stato di promiscuità. In quel periodo, quando ero volontaria lì, i soldi destinati agli orfani furono drasticamente tagliati e i bambini erano tenuti male nelle strutture. Non avevano scarpe adeguate, piumini per l’inverno, saponi, shampoo, per non parlare della carne, che era un lusso. La cosa più sorprendente era vedere che i barboni che vivevano per le strade di Kiev erano tutti giovanissimi. Scoprì in seguito che erano ex orfani. In Ucraina a 16 anni gli orfani lasciano le strutture. Un tempo, durante l’URSS, esisteva uno Stato che si prendeva cura di loro anche dopo i 16 anni con l’istruzione, un lavoro, una stanza o una casa se metteva su famiglia. Finita l’URSS è finita con essa anche l’assistenza di questi ragazzi per il dopo. Oltre a lavorare come volontari nell’orfanotrofio, prestavamo servizio ad un centro d’ascolto per ex orfani. Tra i progetti poi messi su con la Regione Veneto, ne scrissi uno che si chiamava proprio 'KIEV 16', destinato a questi ragazzi di strada".

Orfani ucraini nelle foto di Antonella Guidi, che ha svolto un periodo di servizio civile nel Paese nel 2008

Che situazione ha trovato, nel 2008 a Kiev, dal punto di vista sociale e politico? "Nel 2008 era appena iniziata la prima crisi politica tra Ucraina e Russia, crisi che diventò subito energetica, infatti negli orfanotrofi faceva freddo. Al potere c’era Julja Timoshenko. Sul governo di quel periodo posso solo raccontare un episodio. Quando stava per giungere Natale, i bambini dell’orfanotrofio KIEV 12 ricevettero una lettera da parte dell’ufficio stampa di un Ministro Ucraino in cui si diceva che sarebbe venuto a trovare i bambini il ministro e che dovevano fargli trovare cibo e doni. Insomma, ci si aspetta in genere il contrario, ovvero che sia il Ministro a portare doni ai bambini. Ma non finì lì. Il ministro si presentò con uno stuolo di giornalisti, con le auto in cui spiccava lo sponsor di una nota compagnia telefonica mobile (scoprii che la moglie del ministro era presidente di questa compagnia). Si fece le foto con i bambini, soprattutto quando questi gli offrirono cibo e disegni, e lui regalò a ciascuno di loro una scheda sim dello sponsor. Un dono inutile per bambini, che non solo non avevano un cellulare ma nemmeno i beni di prima necessità. Io ero furiosa, ma loro erano ugualmente contenti perché avevano ricevuto un dono, non vedevano la miseria umana che si celava dietro. Questo è per far capire come è sempre stato il potere in Ucraina". Com’è andata nel primo orfanotrofio in cui ha lavorato? "Il primo orfanotrofio in cui ho lavorato si trovava a Kiev, sulla Kharkivske Shosse. Si trattava di una struttura speciale, sui generis: ospitava circa 45 bambini, quindi molto piccolo per gli standard, perché al suo interno c’erano bimbi con ritardi psichici o che avevano subito maltrattamenti familiari, abusi, situazioni di forte degrado sociale. La loro fortuna era nel vice direttore, Bogdan Bashtovy, un uomo dal cuore d’oro che si prodigava per loro. Essendo interprete dall’inglese, sfruttò le competenze linguistiche per trovare sponsor stranieri e far fronte così alla crisi economica che aveva interessato gli orfanotrofi ucraini. Motivo per cui eravamo finite lì come volontarie servizio civile. Era in qualche modo entrato in contatto con associazioni italiane che facevano venire in Italia, nei periodi estivi e natalizi, bambini ucraini provenienti dagli orfanotrofi. Ho avuto modo di visitare parecchie strutture in Ucraina, soprattutto nella zona della Crimea e del Donbass (Donetsk, Charkhov -che dal 2014 si chiama Kharkhiv-, Cherson, Cjurupyns'k -che sempre dal 2014 si chiama Olešky-), ma tra tutti, quello di Kiev 12 è stata la struttura migliore, dove i bambini erano seguiti e c’erano anche figure professionali come logopediste, psicomotriciste, neuropsichiatre. Certo, tutte pagate con finanziamenti esterni, grazie alle donazioni che Bogdan trovava all’estero. A Donetsk e Cherson la situazione era più disagiata. Da quelle parti c’erano strutture che ospitano anche 300 bambini e ragazzi. Vivono assembrati, in promiscuità e con scarsissime risorse, a cominciare dai vestiti e dal cibo. Ci sono stati episodi di gravidanze già a 15 anni".

L'esperta del Cnr con i bimbi di un orfanotrofio in Ucraina

All’interno di questi istituti c’erano anche bimbi affetti da patologie molto gravi o disabili… “A Cjurupyns'k c’erano tutti bambini con gravissime malformazioni, frutto ancora del disastro di Chernobyl. Non ho mai visto niente di tutto ciò in vita. Negli altri orfanotrofi, invece, c’erano parecchi bambini affetti da sindrome feto-alcolica e alcuni, pochi a dire la verità, da Aids. La sindrome feto-alcolica è terribile e non lascia molto scampo. Si riconosce dai volti perché colpisce lo scheletro del bambino”. E come venivano trattati i bambini con gravi malformazioni? “In Ucraina i bambini con gravi deformazioni vivono emarginati. Non c’è assistenza. Anche a Cjurupinsk’ andavano avanti grazie alle donazioni che Bogdan trovava. Purtroppo c’è da dire che c’è un certo retaggio politico sovietico in questo. I bambini disabili o con gravi handicap venivano affidati allo Stato e vivevano con altri nelle stesse condizioni. Questa mentalità è sopravvissuta, la famiglia non segue e non si prende cura del figlio invalido, ma lo affida da subito alle strutture dello Stato. Come non c’è la mentalità di integrazione con il disabile. Regalammo ai bambini di Cjurupinsk’ uno spettacolo circense durante le festività natalizie, con l’organizzazione di pullman e altri ragazzi dell’orfanotrofio Kiev 12 che vennero con noi per aiutarli con le carrozzelle e le stampelle. Molti presenti in sala, quando videro i bambini e ragazzi invalidi e con gravi malformazioni entrare, presero, si alzarono e se ne andarono disgustati”. Lei è slavista ed esperta di cultura e storia russa e ucraina. Come è vissuta la diversità in questi due Paesi, oggi in guerra fra loro, e cosa si intende per Figli di Stato? “La diversità, come già accennavo, è ghettizzata. C’è stato un margine di apertura al problema solo dagli ultimi sette-otto anni. Prima in Unione Sovietica tutti erano ‘figli dello Stato’, nel senso che lo Stato si prendeva cura dei suoi cittadini fin dalla nascita con asili, istruzione gratuita, università, ricerca di un lavoro e di un alloggio. Quindi era un concetto esteso a tutti. Sulla disabilità si apre un’altra questione. All’indomani della Rivoluzione, c’era il motto 'Non ci sono disabili in URSS', che non significava che ci fosse una negazione del problema ma si voleva sottolineare che lo Stato sovietico si sarebbe preso cura e carico di loro.  Di fatto, invece, venivano completamente abbandonati dalle famiglie. Dal momento della nascita, questi bambini venivano affidati a delle strutture e lì rimanevano senza mai uscire. Ci sono dei romanzi recenti di alcuni scrittori russi con disabilità che raccontano queste vite confinate dentro a quattro mura, senza mai conoscere l’affetto di persone esterne. Tra i più famosi ci sono quelli di Valery Fefelov, che ha scritto un libro dal titolo eloquente: 'Non ci sono disabili in Urss!' (riprende il motto entusiasta e ottimistico), in cui narra come le istituzioni che accoglievano in fasce questi bambini, per tutta la vita, diventavano una sorta di 'Arcipelago Gulag'. La vita dei disabili narrata era una vita di disgraziati imprigionati in queste strutture pseudo ospedaliere sovietiche. Nel 1978, lo stesso Fefelov, fonda poi il movimento per gli invalidi”.

Alcuni orfani ucraini

La guerra ha portato a questi bimbi ferite e menomazioni. Ma oltre queste anche altre cicatrici: quelle della psiche, dell’anima… Come si potrà rimediare a tutto questo? “Difficilmente queste ferite si rimargineranno, purtroppo. Fa male vedere questa situazione e ancora non me ne capacito. Erano due popoli fratelli e profondamente legati tra loro, vent’anni fa se avessero raccontato ad un russo o ad un ucraino che sarebbero diventati nemici ed in guerra non ci avrebbe mai creduto”. La scena o il ricordo che non dimenticherà mai… “Ci sono tanti episodi che non dimenticherò mai, ma in primis non scorderò i volti dei bambini, di tutti, ma di una in particolare. Il 9 maggio del 2009, anniversario della vittoria dell’URSS contro il nazismo, visitammo per la prima volta un orfanotrofio di Cherson. I bambini ci accolsero cantando canzoni di guerra e ad un certo punto, visto che sapevano che eravamo italiane, ci omaggiarono con la canzone 'Mamma son tanto felice'. Mi sentì a disagio perché fecero cantare la canzone dedicata ad una mamma a dei bambini che non l’avevano mai conosciuta. Ma a parte questo dettaglio, c’era una bambina che mi guardava e mi sorrideva sempre. Alla fine dello spettacolo, venne da me e mi abbracciò, mi disse che lei mi sorrideva e che cercava di sorridere sempre anche quando vedeva persone passare fuori dall’orfanotrofio perché così qualcuno l’avrebbe notata e portata via da lì. Mi chiese di tenerla con me, di diventare la sua famiglia. Mi spezzò il cuore, perché non potevo. E lei poi mi disse che ogni anno che passava, lei sapeva che perdeva le speranze per essere adottata e che non voleva più crescere. Parole terribili dette da una bambina di appena 8 anni. Però questo fa capire che a volte anche solo una persona può diventare tutta la famiglia, l’intero mondo di qualcuno. A volte ripenso ancora a lei”.