Ha un nome evocativo e anche un po’ inquietante, Il Rumore del Lutto Festival. In realtà non c’è nulla di male, si tratta della prima e più importante rassegna di cultura death education in Italia. La rassegna, fino al 17 novembre, propone a Parma (e non solo) per la sua XVIII edizione concerti, incontri, convegni, performance, passeggiate, ritiri, laboratori per le scuole e tanto altro per incoraggiare e approfondire una riflessione individuale e collettiva sulla vita in tutte le sue sfaccettature.
Dopo aver ospitato Daniel Lumera, biologo naturalista, scrittore e riferimento internazionale nell'ambito delle scienze del benessere e della qualità della vita, e Stefano Mancuso, scienziato fondatore della neurobiologia vegetale e appassionato divulgatore, incluso dal New Yorker tra coloro che sono destinati a cambiarci la vita, da sabato 16 novembre il festival trasloca a Reggio Emilia, dove a Palazzo Magnani sarà presentato “Il Cantico dei quanti”. Invece domenica 17 alle 21 gran finale con il concerto di Motta al Teatro Ariosto.
Promosso da Segnali di Vita Aps, con la direzione scientifica e artistica della tanatologa, formatrice e giornalista Maria Angela Gelati e del giornalista, critico musicale e fotografo Marco Pipitone, Il Rumore del Lutto quest’anno ha scelto come claim “Respira”: una parola che è un invito a godere e curare ogni momento, consapevoli della preziosità del tempo. Ne parliamo con la co-fondatrice, la mantovana Gelati, classe 1969, death educator e docente al Master Death Studies and the End of Life dell’Università di Padova e alla Scuola Superiore di Formazione per la Funeraria, che recentemente ha pubblicato con Mursia il saggio “La relazione d’aiuto. Come aiutare a gestire il percorso del lutto”.
Come vi è venuto in mente di fare questo festival sulla morte? “Nel 2007, parlando con Marco Pipitone della commemorazione dei defunti, ci siamo interrogati su come è possibile che ci sia una festa così importante, ma al di là della visita al cimitero non è poi possibile creare, nel mondo dei vivi, una riflessione sull’argomento. Magari creando un ponte tra la città dei morti e la città dei vivi. È partito tutto da lì, abbiamo messo in piedi un evento, ovviamente di nicchia se vogliamo, molto provocatorio perché l'abbiamo chiamato Il rumore del lutto e l'abbiamo dedicato a Pier Paolo Pasolini”.
Non sapevate ancora che l’evento sarebbe diventato una rassegna e poi un festival? “Volevamo rompere il silenzio, rompere la censura attorno ad un tema così evitato, come la morte, trasformandolo in un'esperienza culturale e collettiva. Nel 2007 ci furono 30 partecipanti, fu un evento interdisciplinare che univa storia, teatro, musica, letture. L’interesse riscontrato ci spinse poi a continuare. Abbiamo voluto aprire uno spazio di riflessione e di dialogo sulla morte in modo che questo argomento fosse però accessibile a tutti e in grado di stimolare nelle persone la possibilità, il desiderio di confrontarsi con il concetto di perdita e di trasformazione”.
Una bella scommessa “Certo, anche perché abbiamo cercato di portare il lutto in uno spazio pubblico o comunque in un contesto di vita quotidiana, togliendolo dal suo isolamento, dagli spazi destinati comunque sempre solo ai professionisti della cura. Volevamo uscire da questa chiusura, perché poi anche i convegni che si facevano, i libri si scrivevano sulla morte, erano sempre appannaggio di chi si occupava di questo tema: non erano per tutti. Con il passare degli anni abbiamo organizzato sempre più eventi e il festival è diventato un punto di riferimento sull’argomento.
È molto orientato alla vita, vorremmo far riflettere tutti, ricordando che vita e morte non sono separate, sono inseparabili. Non a caso il tema di quest'anno è Respira. Anche l'inspirazione e l'espirazione in qualche modo sono un ciclo di nascita e rinascita, se ci pensiamo. Però non sempre si respira consapevolmente, non sempre facciamo tre respiri e ci diciamo sono vivo, ho tante potenzialità, ho tanto da costruire, di cui rendermi conto. Anche i temi che scegliamo sono temi aperti, che ci consentono una maggiore consapevolezza”.
Un festival dedicato a una forma di educazione culturale innovativa? “Secondo me c'è bisogno di una nuova cultura della vita che ha in sé la morte. Troppe volte noi vediamo la morte solo a livello spettacolarizzato e non abbiamo invece la consapevolezza di che cosa significa quella morte, che leggiamo magari in prima pagina, per chi resta, per chi fa parte di quella cerchia familiare, anche quando è una morte violenta”.
I death studies sono ancora all'inizio in Italia “Sì, ma stanno sempre di più guadagnando terreno. Tradizionalmente la riflessione soprattutto accademica e pubblica è stata finora piuttosto limitata, confinata a settori specifici, come per esempio la medicina, che tra l'altro ancora oggi, a livello, di piani di studi universitari, non prevede esami sul fine vita. Però negli ultimi anni ha iniziato a farsi strada un nuovo modo di osservare la morte. Io infatti insegno all'Università di Padova, al master Death studies and end of life, che è diretto dalla professoressa Ines Testoni, che è una filosofa e anche psicoterapeuta.
Questo master è rivolto in particolar modo alle facoltà di medicina, psicologia e scienze della formazione, e contribuisce ad un campo sempre più aperto di questi temi, anche perché ogni anno sono sempre di più le persone che si iscrivono al master. Lo fanno anche insegnanti, operatori spirituali, non solo psicologi infermieri o medici. Credo che questo indichi che ci sia terreno fertile per uno studio più ampio del tema e sicuramente il festival, con tutto il suo impegno, penso stia contribuendo ad aprire uno spazio pubblico di dialogo su questi aspetti. Anche 18 anni fa, quando abbiamo cominciato, il pubblico l'abbiamo sempre avuto, ma era veramente di nicchia rispetto a quello che c'è oggi”.
Ma che c'entra Motta con il vostro festival, come gli scegliete gli artisti? “Scorrendo il programma anche degli altri anni, appare chiaro che, anche in campo musicale, operiamo sempre delle scelte mirate. Ci piace il mondo alternativo della musica, quindi difficilmente invitiamo artisti particolarmente affermati o mainstream. Quest'anno abbiamo scritto anche a Nick Cave, a cui abbiamo chiesto di presentare il suo ultimo libro da noi: è stato gentilissimo, ma non ce l’ha fatta a intervenire. Motta fa parte comunque di quegli artisti impegnati e apprezzati di questa scena contemporanea, l’abbiamo chiamato anche perché il suo ultimo album si chiama ‘La musica è finita’ e, anche nei suoi testi c'è grande attenzione alle trasformazioni, alla perdita, come ad esempio anche il concerto dei Tindersticks che abbiamo organizzato il 31 ottobre, come loro unica data italiana”.
Continuate a puntare anche sulla musica, insomma? “Pensiamo che come disciplina sia particolarmente importante perché la musica è un grande veicolo di emozioni, riesce ad affrontare certi temi in maniera accessibile, profonda. Non facciamo solo gli incontri con il relatore, con l'architetto, con il botanico, il biologo, eccetera, ma proponiamo anche la musica che è una cornice importantissima per un festival di questo tipo, perché tocca maggiormente le corde, che le parole da sole spesso non riescono a raggiungere. Evoca emozioni profonde, con un linguaggio universale che rende più facile confrontarsi con argomenti intimi. Senza la rigidità, senza la solennità che a volte invece accompagnano questo tipo di riflessioni. Usiamo il potere evocativo della musica per aprire una conversazione più ampia su questioni che fanno parte della vita di tutti”.
La tanatologia è un ramo della medicina legale che riguarda lo studio delle cause di morte e dei fenomeni relativi a questa. Come ci si scopre tanatologi? “Per quanto mi riguarda, sono sempre stata una piccola tanatologa, anche se non me ne rendevo conto. Mi facevo grandi domande fin da bambina, poi da adolescente ho continuato a farmele e ho cominciato a interessarmi di tanatologia da autodidatta. L'università mi ha aperto un po' il mondo, grazie anche alle esperienze Erasmus, agli scambi, ai gemellaggi che ho fatto con la Francia, fino poi ad arrivare agli Stati Uniti. Il mio è comunque il risultato di un percorso personale, quindi non solo intellettuale o professionale, che porta ad avvicinarsi a questo tema in maniera più consapevole, più approfondita.
C'è chi arriva alla tanatologia attraverso la professione, per esempio gli psicologi, i medici, o persone che hanno avuto un lutto importante e quindi vogliono capirlo, nel mio caso invece è stata la curiosità, il desiderio di approfondire le motivazioni. Ho fatto anche una tesi sul cimitero alla quale ho lavorato diversi anni, era una tesi sperimentale e un percorso ricco di empatia e di apertura mentale, perché comunque dobbiamo confrontarci con la fragilità umana, senza fuggire dalla consapevolezza della nostra mortalità. Siamo esseri mortali, come poi diceva Franco Battiato. Quindi penso sia un modo importante per sensibilizzare la gente, attraverso un festival, ma anche per supportare gli altri in questo viaggio, perché la vita poi è un viaggio e la morte è un passaggio. Io vedo sempre la morte come il punto alla fine di una frase, ma poi il discorso continua”.