Ryan Reynolds, suo padre aveva il Parkinson: “Il nostro rapporto rovinato, vorrei essergli stato accanto”

L’attore racconta i sintomi meno noti del morbo di cui era affetto il papà, morto nel 2015, che presentava e di cui però in famiglia non si parlava. Solo dopo molti anni queste informazioni hanno portato risposte importanti

di Redazione Luce!
15 agosto 2024
Ryan Reynolds (Instagram)

Ryan Reynolds (Instagram)

Ryan Reynolds aveva 22 anni quando a suo padre, James Chester Reynolds, ex agente di polizia, fu diagnosticato il morbo di Parkinson. È lo stesso attore a raccontarlo, in una lunga intervista al magazine People, rivelando anche che la loro famiglia parlava raramente dell'argomento. “Per quanto ne so – ha rivelato la star di “Deadpool e Wolverine” –  ha pronunciato la parola Parkinson forse tre volte, e nessuna di queste con me. C'era un forte senso di rifiuto, un desiderio di nascondere la cosa”. Suo padre è poi morto nel 2015, all'età di 74 anni, dopo aver convissuto con la malattia per quasi 20 anni.

Anche a causa della malattia – ma questo non lo sapevano all’epoca, visto appunto l’atteggiamento tenuto in merito – padre e figlio hanno avuto un rapporto complicato, esacerbato da ciò che l’attore ha poi capito essere legato alla lotta del padre con allucinazioni e deliri, due sintomi meno noti del Parkinson, iniziati circa 10 anni dopo la diagnosi. “Hanno destabilizzato il mio rapporto con lui perché non sapevo davvero cosa stesse succedendo”, dice Reynolds, che ha collaborato con la campagna educativa More to Parkinson's, che offre risorse a pazienti e caregiver.

Nel numero di questa settimana della rivista il 47enne, più giovane di quattro fratelli e a sua volta padre di suoi quattro figli avuti con la moglie Blake Lively, racconta cosa ha imparato sul Parkinson e la nuova prospettiva di vita che ha acquisito grazie alla paternità.

L’attore spiega infatti che i più problemi più gravi con James sono apparsi quando gli effetti delle crescenti allucinazioni e deliri di quest’ultimo hanno causato una frattura più profonda nella loro nella relazione. “All'epoca pensavo solo: ‘Mio padre sta perdendo la testa’. Ma papà stava davvero scivolando in un tunnel buio in cui faticava a distinguere tra realtà e finzione. E di conseguenza tutti gli altri membri della sua vita stavano perdendo la fede e la fiducia che avevano in lui e nelle sue capacità. Si discostava così tanto dall'uomo con cui sono cresciuto fino ad allora e che conoscevo”.

Ancora, Reynolds ammette di riuscire solo ora, a nove anni di distanza dalla sua morte, a mettere insieme i pezzi della storia. “Non mi stavo assumendo le mie responsabilità – confessa –. È stato molto facile per me convivere con l'idea che io e mio padre non la pensavamo allo stesso modo e che una vera relazione con lui era impossibile. Ora che sono più grande, mi guardo indietro e penso che sia stata più che altro la mia riluttanza ad andargli incontro. Avrei potuto essere lì con lui verso la fine, ma non l’ho fatto. Io e lui ci siamo allontanati e questo è un fatto con cui dovrò convivere per sempre”.

Nel corso degli anni di malattia, però, non è stato sempre tutto difficile e tra padre e figlio ci sono stati anche molti momenti di connessione. “Ho inviato a mio padre una lettera circa cinque mesi prima che morisse, e sono molto contento di averlo fatto – racconta ancora a People –. La lettera era praticamente un elenco di tutte le cose straordinarie che ha fatto: ogni volta che si è presentato oche ha fatto una partita con me fuori dal campo dopo l'allenamento di baseball. Ogni volta che era lì. E se quell'uomo non riusciva a esprimere le sue emozioni in modo spontaneo, beh, molte persone non ci riescono. Il ‘ragazzo’ era nato negli anni '40. Va bene così. Quindi sono molto grato di aver inviato quella lettera. So per certo che ha significato molto per lui. Così ho avuto questa chiusura, ma non ero con lui quando è morto, e avrei voluto esserci”, chiosa emozionato Ryan Reynolds.

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Oggi si impegna a favore dell’associazione che supporta sia i pazienti che i caregiver che si prendono cura di loro, perché ha visto quanto la fatica che ha fatto sua madre nell’assistere il marito fino all’ultimo sia stata reale. “È probabilmente uno degli effetti collaterali non dichiarati di malattie come questa. Vorrei che le risorse che sono disponibili oggi per trattare questa parte del Parkinson fossero esistite allora, o almeno che ne fossimo stati a conoscenza, perché avrebbero dato molta speranza (alla mia famiglia). Per me la guarigione avviene più che altro attraverso il rapporto con i miei figli, e so di aver ereditato da mio padre alcune cose che hanno un valore immenso”.