Sono stati consegnati ieri sera i David di Donatello, i più prestigiosi premi di cinema italiani. Con il consueto corredo di polemiche, specialmente quelle relative ai premi “tecnici” consegnati a parte, come fossero premi di una categoria minore. Il David al miglior film è andato a “Io capitano” di Matteo Garrone, che ha ricevuto sette statuette su 15 candidature, e che ha vinto anche il premio per la Miglior regia. Superato sul filo di lana “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, che vince sei premi, fra cui quello per il Miglior esordio alla regia e per la migliore attrice protagonista, la stessa Cortellesi, che ha vinto anche il David dello Spettatore. Marco Bellocchio, con “Rapito”, riceve cinque statuette. Sono loro i tre film che hanno dominato l’edizione di quest’anno dei premi. E, al di là delle considerazioni sui diversi stili, sui valori artistici dell’uno e dell’altro film, balza agli occhi una considerazione: tutti e tre trattano di temi che riguardano la nostra società e la nostra storia, recente o passata.
Giovani migranti che sognano l’Europa
“Io capitano” racconta, con i toni di una favola colorata densa di emozione, la traversata di due giovanissimi migranti dall’Africa alle coste italiane. Non nasconde nulla, ma non cede ai toni della tragedia cupa, non indulge nel melodramma. Il suo film, parlato in gran parte in Wolof, è colorato come i tappeti africani, ed è coraggioso, perché non mostra il caso di ragazzi che fuggono dalla morte, dalla guerra, ma ragazzi che sognano l’Europa perché sognano una vita migliore, come dovrebbe essere nel diritto di tutti. E per far questo, si sottopongono ad un’odissea, fra sofferenze, rischi, violenze subite, incertezza sul vivere e morire. Le sette statuette a Garrone sono anche il coronamento di un percorso lungo del film, e anche in qualche modo un risarcimento per l’Oscar mancato. Ne abbiamo visti tanti di servizi televisivi sulle storie dei migranti. Che cosa c’è di nuovo, di sorprendente in questo film di Garrone? Che a muovere i due ragazzi senegalesi è il sogno, la speranza. A Venezia il film ha vinto il Leone d’argento per la regia e il premio Marcello Mastroianni per il giovane emergente Seydou Sarr, protagonista della storia. Il David conclude un percorso lusinghiero per il film, che ha anche trovato un felice incontro con il pubblico.
Violenza e gender gap: dallo schermo alla realtà
Il film di Paola Cortellesi, il miracolo cinematografico – per incassi – di questa stagione, affronta almeno due temi importantissimi, due battaglie di oggi, raccontando una storia ambientata nell’immediato dopoguerra: la violenza sulle donne e la disparità di trattamento lavorativo. Il marito interpretato da Valerio Mastandrea è un violento ottuso e rabbioso, che usa le botte quasi come unica forma di comunicazione con la moglie: oggi ha smesso di indossare la canottiera, ma probabilmente esiste ancora. La protagonista, interpretata da Paola Cortellesi, va a lavorare da un ombrellaio, e viene pagata meno dell’apprendista a cui insegna il lavoro. E anche questo non è soltanto un ricordo. Cortellesi ha mostrato, con tutta la forza possibile e con la distanza narrativa del suo bianco e nero, due questioni fondamentali della società contemporanea. E la scena del voto ci ricorda che, oggi come ieri, nulla è dato per scontato, e nessun diritto è acquisito per sempre.
Il bimbo strappato alla famiglia
Cinque David per Marco Bellocchio, che ha scherzato: “L’età mi rende moderatamente soddisfatto. Se non fossi stato premiato, sarei moderatamente insoddisfatto. In ogni caso spero di avere, ancora per qualche anno, la testa a posto per fare qualche altro film”. “Rapito”, che vince il David per la migliore sceneggiatura non originale, racconta di un bambino ebreo letteralmente “rubato” ai genitori dagli ufficiali dello Stato pontificio sotto il papato di Pio IX, per essere convertito al cattolicesimo. Una conversione forzata, uno dei (molti) figli strappati alle loro famiglie. Una storia che racconta una pagina cupa della storia relativamente recente della Chiesa cattolica.
Dignità negata ai lavoratori
Un altro film accoglie tematiche forti: è “Palazzina Laf” che vince tre David, fra cui quello per il miglior attore protagonista, Michele Riondino, e quello per il miglior attore non protagonista, Elio Germano. L’esordio alla regia di Riondino è pieno di rabbia, di foga, di senso di ingiustizia. Racconta una vicenda accaduta all’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, a metà anni ’90: una storia di emarginazione e mobbing di un gruppo di dipendenti, un film sul mondo operaio, sulla sua crisi, sulla sua fine. Osservata dalla prospettiva distorta di un “traditore”.
La storia di una violazione della dignità dei lavoratori, per cui i proprietari dell’acciaieria sono stati condannati. Riondino interpreta la coscienza annichilita di una classe operaia finita all’inferno, e non in paradiso, la tragedia di un uomo ridicolo che guarda le tragedie in corso dal punto di vista sbagliato. Un film forte, coraggioso, da rivedere. Con interessanti musiche, fra il thriller e la fiera di paese.
Justine Triet fa commuovere Alice Rohrwacher
A secco di statuette ma non di emozioni, una menzione la merita anche Alice Rohrwacher per “La Chimera”, quello che in tanti considerano uno dei migliori film italiani dell’anno, e non solo. Se nessuna delle 13 candidature ai David 2024 l’ha portata sul palco, ci ha pensato però la regista – Palma D’Oro a Cannes e Oscar alla miglior sceneggiatura – Justine Triet a renderle omaggio.
Il suo “Anatomia di una caduta” ha ricevuto il David per il miglior film internazionale dalle mani nientemeno di Isabella Rossellini (“sono commossa di ciò” ammette), e dal palco ha voluto ricordare alcuni grandi nomi del cinema italiano come Michelangelo Antonioni e Monica Vitti. Ma, dicevamo, nel suo discorso di ringraziamento la cineasta francese espresso anche la sua ammirazione per la regista di Fiesole “che amo follemente. Ho una passione per lei, è una cineasta fantastica e ho amato La chimera”, ha detto Triet, facendo scoppiare a piangere commossa la collega italiana.