Il numero 14 deve essere connesso per una qualche fatalità del caso con Alessandro Pighi, estremo difensore rispettivamente del Valdadige e della Nazionale Amputati. Sì, perché Alessandro nel 2014 ha perso un braccio (il destro) mentre svolgeva il suo quotidiano lavoro di giardiniere, ma il 14 aprile scorso, in qualità di atleta e di portiere aggiunto all’ultimo momento, è stato protagonista di una vera e propria prodezza sportiva che ha salvato la sua squadra durante la partita contro il Vetta.
Il calciatore 34enne è stato in grado di scongiurare con il suo magistrale intervento la sconfitta lasciando il risultato finale sullo 0 e 0. Alessandro Pighi non si sente affatto sfortunato e sin dal momento del terribile incidente ha mantenuto un atteggiamento ottimista e positivo, lasciando di stucco la fidanzata e i parenti che, a dispetto delle evidenze, erano i più spaventati e sgomenti.
L’incidente, l’amputazione e il ritorno alla vita di sempre
Ma come sono andate le cose? Nel modo più banale e pazzesco possibile: mentre sta tagliando dei rami, il taglia-erba tocca i cavi della corrente elettrica provocando una scarica da 18 mila volt. Alessandro perde i sensi e le sue condizioni appaiono subito molto gravi. Ad essere stato colpito con impietosa violenza è il braccio destro e i medici non hanno dubbi: se si vuole salvare la vita del giovane occorre amputare. Tutto questo accadeva dieci anni fa, ed è storia.
La vita di oggi è tornata ad essere quella di sempre: continua il suo mestiere di giardiniere, non smettendo di coltivare anche la passione per il calcio. Un uomo mite, posato, saggio Alessandro, nonostante la giovane età che ha costruito una bella famiglia con la sua compagna e la piccola Maddalena, che riempie le sue giornate e lo fa sentire il papà più perfetto del mondo.
Come è cambiata la sua vita da quel giorno?
“Certamente è stato un duro colpo per me, ma soprattutto per la mia famiglia. Sapevamo bene che le conseguenze dell’incidente avrebbero comportato una notevole serie di difficoltà, ma tanto la mia ragazza che tutti i miei familiari erano rimasti increduli di fronte alla mia imprevedibile forza d’animo e alla reazione estremamente positiva che avevo avuto di fronte a quella fatale circostanza. L’allarme generale era fortissimo, quindi ho capito che sarebbe toccato a me rasserenare gli animi e fare coraggio: per quanto mi riguarda ero consapevole che avrei ripreso a qualunque costo la mia carriera sportiva. E questa convinzione mi infondeva forza.”
Si sente di essere adesso un atleta con una marcia in più?
“Adesso sento di poter contribuire con la mia esperienza a trasmettere fiducia nei più giovani. Non so se quello che ho patito mi ha dato una marcia in più, certamente mi ha reso migliore sotto tanti aspetti e in qualche modo ha perfino arricchito la mia esistenza. Se si allude, poi, in particolare alla famosa parata ben riuscita che mi è capitato di fare, tutto è nato dal caso: erano indisponibili gli altri due portieri ed è toccato a me. Va detto in ogni caso che i miei compagni si sono fatti in quattro per difendere la mia porta. Comunque la parata c’è stata, ne sono felice anche se mi sono fatto un gran male andando a sbattere per forza d’inerzia su un palo. Cosa che ripeterei senza esitazione per l’enorme amore verso la mia squadra.”
Che tipo di rapporto ha stabilito con le persone che condividono una qualche disabilità e le sono accanto nello sport?
“Il mio vero sogno, subito dopo la guarigione, era quello di tornare a giocare nella mia vecchia squadra, ma siccome le norme della Figc lo proibivano sono approdato a una squadra di calcio di Padova per atleti disabili. Si è rivelata immediatamente una esperienza umana di grande valore, perché lì ho conosciuto persone splendide e mi sono misurato con una realtà che in genere sfugge ai cosiddetti normodotati. Nel frattempo mi è arrivata una chiamata per partecipare alla Nazionale di Calcio Amputati e anche in quel frangente ho stretto legami di amicizia che anche adesso perdurano. Dopo qualche tempo, ormai sono trascorsi dieci anni, ho avuto il permesso di tornare a giocare nella Valdadige dove tutt’ora mi trovo”.
Ha mai subito forme di discriminazione per la sua condizione?
“In senso stretto, direi di no. Certo, devo sopportare molto spesso gli sguardi curiosi e forse troppo insistiti delle persone: ma in fondo lo capisco. È normale che quando si incontra qualcuno con evidenti segni di ‘diversità’ non sia del tutto possibile sopprimere l’istintivo impulso di osservare: un tempo credo che lo avrei fatto anch’io, magari sbagliando, ma è così che vanno le cose nella realtà di ogni giorno. L’importante è che non si ravvisino i segni della deliberata cattiveria.”
Cosa insegnerebbe ai suoi figli in base alla sua esperienza?
“Ho già una figlia piccola che si chiama Maddalena, la mia vita. Nonostante la tenera età sembra già accorgersi che in me c’è qualcosa di strano. Tuttavia a tempo debito le parlerò e le spiegherò come sono andate le cose senza nessun problema: lei mostra di avere una intelligenza davvero molto precoce, quindi sono sicuro che non ci saranno difficoltà.
Cosa le raccomanderò? Di stare sempre molto attenta a tutto e che niente può essere preso sottogamba o come un gioco quando c’è di mezzo la propria stessa vita. Le dirò specialmente di essere meno distratta di suo padre, che forse si è fatto fregare, anche per colpa dell’abitudine, e ha preso alla leggera quello che invece non lo era affatto. Basta un attimo e tutto cambia nella tua vita, per ragioni banali e imponderabili.”
Ci sono cose che avrebbe voluto fare e pensa di non poter raggiungere?
“Per quanto riguarda il calcio mi è dispiaciuto non partecipare a un Mondiale, adesso ho rinunciato a quell’idea. Da giovane ho avuto la possibilità di giocare in eccellenza. Tuttavia essere capitano del Cavaion mi appaga moltissimo perché è una squadra a cui sono affezionato e anche la mia compagna lo adora dove ha trovato tante belle amicizie.”
In che modo guarda al futuro?
“Il mio futuro si identifica in quella peste meravigliosa che è Maddalena. Finché le gambe reggono non smetterò di giocare e tenare di vincere un campionato. Magari continuerò anche a scrivere, visto che ho già dato alle stampe un primo libro, grazie all’aiuto di mia sorella, in cui racconto le mie vicissitudini. Il mio futuro sarà certamente quello di un atleta che dovrà fatalmente vedersela con la carta d’identità, ma soprattutto il tempo giusto di un uomo che crede nei valori dell’umanità e nella forza della famiglia. La prova che il destino mi ha imposto è stata durissima, ma credo di averla superata alla grande. Il segreto? Ottimismo e tanto equilibrio. Sono qualità in cui credo e che ho messo in campo, è il caso dirlo, certo che fossero la cura migliore. In più l’amore dei miei cari non finisce mai di darmi certezza e speranza, perché senza la forza dell’amore nessuna battaglia personale può essere vinta.”