Le atlete transgender o con iperandrogenismo hanno un vantaggio sulle avversarie nelle gare femminili? Se a Tokyo 2021 se ne parlò, ma solo a margine, viste le ben altre e più generali problematiche che caratterizzarono i Giochi Olimpici dell’epoca Covid, il tema della partecipazione di queste sportive (transgender e con differenze della differenziazione sessuale) alle competizioni internazionali sembra essere uno dei più scottanti del momento e “sicuramente se ne parlerà molto anche a Parigi 2024”.
Ne è convinta l’avvocata Stella Riberti, dello studio legale Withers, esperta di diritto sportivo e di questioni di D&I. Oggi a tenere banco è il caso (anche giudiziario) della nuotatrice americana Lia Thomas e di tutte coloro che, come lei, vengono escluse dalle gare femminili perché le Federazioni ritengono che la loro condizione porti loro un ingiusto vantaggio competitivo e comporti un rischio per la sicurezza e l’integrità delle loro avversarie. Ma escluderle o prevedere per loro addirittura una terza categoria non è una forma di discriminazione? Come si raggiunge un equilibrio tra i vari aspetti? Ne parliamo con la legale.
Avvocata iniziamo con un chiarimento: atleti e atlete transgender e con DSD, che differenza c’è?
“Gli atleti che hanno DSD (incluso l’iperandrogenismo ad esempio), presentano problematiche congenite fisiche legate nella maggior parte ad un livello eccessivo di testosterone. All’età dello sviluppo della pubertà cambia fisicamente il livello ormonale ma anche quello fisico, cioè si sviluppano gli organi maschili all’interno del corpo femminile.
La normativa IOC è cambiata nel 2021, ma già nel 2000 aveva previsto l’obbligo per atlete con queste problematicità di operazioni chirurgiche. L’approccio invasivo è stato oggetto di contestazioni, dati i rischi e le conseguenze psico-fisiche derivanti da tale imposizione. Ne è seguita una prima modifica della norma nel senso di prevedere una valutazione medica approfondita e l’eventuale necessità di un trattamento ormonale, come adesso avviene nella maggior parte dei casi.
La problematica relativa agli atleti transgender è diversa: si tratta di persone che nascono con un determinato genere assegnato alla nascita, che risulta pubblicamente nella carta d’identità e sul passaporto, e che nel corso della loro crescita decidono di cambiare genere. A livello civilistico si applicano norme diverse da quelle poi applicabili a livello sportivo. Anche la problematica transgender a livello normativo non è semplice da regolare. Attualmente il parametro considerato è l’età della pubertà (che si presume a 12 anni): perché il cambio di genere in età successiva può avvenire solo previo rispetto dei parametri a livello ormonale sanciti dalla normativa, tramite terapia ormonale (il caso di Lia Thomas) anche aggiuntiva rispetto al trattamento chirurgico (che serve ad accelerare i tempi del cambio).
Quindi, in sunto, sono due casistiche geneticamente e fisicamente diverse: una è legata a un problema di testosterone ma non è un cambio di genere rispetto a quello che è stato attribuito alla nascita come invece nel caso transgender”.
In quest’ultimo c’è il fattore volontà personale del cambio di genere?
“Sì, e uno dei motivi conclamati da Lia Thomas è: ‘Io non voglio gareggiare nelle competizioni femminili per avere un vantaggio ma voglio gareggiare tra le donne perché mi identifico come femmina’”.
Come si risolvono i casi (processualmente parlando) in merito?
La risposta è quella che spesso i giuristi e gli avvocati danno: “Dipende. Ma è davvero così, non si può prescindere dalla valutazione caso per caso, quindi il problema vero è trovare criteri oggettivi, ragionevoli e adeguati per la regolamentazione da parte delle federazioni internazionali dei diversi casi. Ovviamente la valutazione della legittimità di queste norme, finché non c’è evidenza scientifica omogenea e comprovata, non deve essere facile e – per fortuna mi viene da dire – la risposta ‘dipende' è davvero così, perché nei casi di Dutee Chand e Caster Semenya sono state rese, in casistiche simili, due decisioni antitetiche da parte della Corte di Arbitrato per lo Sport di Losanna (CAS), eppure entrambe basate sull’evidenza della pretesa illegittimità delle norme della World Athletics (all'epoca IAAF) in tema di atlete DSD. L’onere della prova, che incombe su chi fa valere l’illegittimità della norma (nel caso della nuotatrice transgender Lia Thomas), non deve essere facile e il supporto scientifico sarà fondamentale”.
La polemica sull’ammissibilità o meno di queste persone alle competizioni riguarda però soprattutto le atlete che hanno fatto il percorso da maschile a femminile?
“È il problema principale, perché se il percorso è inverso (da donna a uomo), non c’è alcuna restrizione regolamentare e non è vietata la competizione all’interno della categoria maschile. La problematica delle atlete trans sta iniziando a essere regolamentata, ma per le federazioni nasce dal fatto che ci sono principi e linee guida stabiliti dallo IOC (Comitato olimpico internazionale) che sono cambiati nel corso degli anni.
Fino al lodo Semenya nel 2019, la normativa andava nella direzione della protezione dell’etica, dell’equità competitiva, della fair competition, quindi verso l’esclusione di atlete che (presumibilmente) avevano dei vantaggi nelle gare in quanto transgender o con DSD. Negli anni erano aumentati questi casi. Dopo la sentenza CAS su Semenya lo IOC ha invece virato verso principi generali, sottolineando l’impossibilità di emanare un regolamento unitario che definisca criteri di ammissibilità validi per ogni sport e, pertanto, limitandosi ad indicare i principi ispiratori per ciascuna Federazione sulla base di un bilanciamento tra interessi opposti: da un lato l’inclusione, dall’altro la tutela della salute degli atleti e l’equità competitiva”.
Ci spieghi meglio queste novità
“Non è facile per lo IOC: ha stabilito un principio importante, quello del bilanciamento, che però rende faticoso per le federazioni andare a regolamentare la materia, e ha sancito l’assenza di presunzione di vantaggio competitivo”.
Prima ha citato il caso della mezzofondista sudafricana. Ci ricorda com’è andata?
“Questo è un principio chiave emerso nella lodo CAS Semenya, che è stato opposto rispetto a quello Dutee Chand del 2015: quest’ultima, atleta indiana con DSD (al pari di Semenya), ha impugnato il Regolamento sull'Iperandrogenismo dell’allora IAAF (oggi World Athletics) sostenendo l'illegittimità della normativa – che prevedeva limiti di testosterone per gli atleti che soffrono di questi problemi – in quanto discriminatoria. Il CAS ha accolto l'appello dell’atleta sulla base della mancanza dell’evidenza scientifica del vantaggio competitivo degli atleti con DSD. Esattamente opposta la decisione CAS del 2019 nel caso di Semenya, nel quale sono stati presentati dalle parti numerosi pareri scientifici, sulla base dei quali il CAS ha stabilito che ‘la normativa IAAF del 2018, nel frattempo resa più stringente, è sì discriminatoria, ma tale discriminazione è necessaria e ragionevole per garantire la sicurezza nello sport e per l’equità competitiva, al fine di evitare indebiti vantaggi competitivi. Da questo momento si è anche iniziato a pensare a una open category”.
Cioè?
“Cioè una terza categoria per chi non riesce facilmente a rientrare nelle classiche due, binarie, maschile e femminile. Per il momento mi risultano solo due federazioni, quella del ciclismo e quella del rugby appunto, che spingono in tal senso. A livello di diritti umani però mi sembra ulteriormente discriminatorio”.
Nessuno ha contestato la decisione su Semenya?
“L'atleta stessa ha impugnato il lodo CAS senza successo avanti al Tribunale Federale Svizzero. Nel 2023 invece la Corte Europea Dei Diritti Umani, accogliendo parzialmente l'impugnazione, ha ammonito lo Stato svizzero per aver confermato il lodo CAS, inter alia per non aver considerato sufficientemente le conseguenze fisiche delle modifiche ormonali imposte dalla normativa, con conseguente violazione dei diritti dell’uomo (artt. 8 e 14 CEDU).
Come detto, nel frattempo lo IOC è intervenuto a modificare le proprie linee guida, le quali, nel bilanciamento degli interessi che lo IOC ha devoluto alle federazioni internazionali e nel sancire la presunzione di assenza di vantaggio competitivo, sembra anticipare il monito della CEDU”.
Quindi esistono linee guida ma non una norma univoca
“Sì, perché il problema è l’evidenza scientifica. È emerso come questi principi dello IOC verso una maggior inclusione comportino d'altro canto la necessità che il Comitato fornisca nei confronti delle federazioni un supporto economico per garantire soprattutto parametro oggettivo scientifico sulla base del quale queste possano regolamentare. Cambia tantissimo da federazione a federazione, da sport a sport. Se è uno sport di contatto, come la boxe, è diverso dal caso del nuoto ad esempio, dove il rischio per la sicurezza è ben diverso”.
Come sono intervenute le federazioni finora?
“La Fina è stata una delle prime: nell’estate 2022 ha regolamentato in senso molto molto restrittivo: le atlete transgender sono ammesse solo se il cambio da maschile a femminile è avvenuto prima della pubertà, quindi entro i 12 anni (a prescindere dal parametro del testosterone). Lia Thomas, che ha completato il suo percorso nel 2021, ha impugnato la norma avanti al CAS. Sarà interessante vedere come va a finire, non ci sono casi precedenti da considerare”.
E le altre?
“La prima a intervenire, dopo la FINA, è stata la World Athletics nel marzo del 2023 che ha stabilito che se il cambio da maschile a femminile avviene dopo i 12 anni, il livello di testosterone deve rimanere inferiore a 2,5 nmol/l di sangue. Hanno fatto seguito, a luglio e agosto, ciclismo e rugby (stesso parametro di testosterone) e poi anche la federazione internazionale di tennis (limite a 5nmol/l). La WTA (regola le competizioni individuali femminili di tennis) invece ha fissato la soglia a 10nmol/l”.
Ci sono altri casi come quello di Lia Thomas o pensa che sorgeranno altre cause da qui a luglio?
“Nell’atletica ad esempio ci sono casi di atlete escluse dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, come Alba Diouf. Per Thomas dubito si raggiunga una decisione in tempo per l’evento. Inoltre sono a conoscenza di un caso di un’atleta di uno sport diverso da quelli finora citati che ha combattuto molto a lungo i problemi di iperandrogenismo per ottenere la qualificazione olimpica, che ha conquistato ma che è molto contestata. Col suo caso ho scoperto che la problematica DSD pare discenda anche da un problema sociale: i casi di incesto o di rapporti all’interno della famiglia, più frequenti nei paesi meno abbienti, determinano queste problematiche genetiche, che sono ereditarie. Ecco perché i casi emersi finora sono soprattutto legati a Paesi asiatici/indiano o dell’Africa”.
Anche la società civile è divisa su questo tema, non sono pochi quelli che sono d’accordo con i divieti…
“Perché queste linee guida sono inevitabilmente discriminatorie, ma finché non c’è evidenza scientifica circa il vantaggio competitivo è difficile tracciare una ‘linea nella sabbia’ circa la legittimità di tali norme. Non è semplice dire se sia giusto o no. Tanto più che occorre distinguere tra problematiche di iperandrogenismo e problematiche di persone transgender”.