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Atlete transgender nelle gare femminili: sono avvantaggiate?

In vista dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, facciamo il punto sulla partecipazione o esclusione delle sportive transgender o con Dsd alle gare internazionali con l’avvocata Stella Riberti: “L’obiettivo dei principi del comitato internazionale è equilibrare inclusione e sicurezza”

di MARIANNA GRAZI -
11 aprile 2024
Lia Thomas

Lia Thomas

Le atlete transgender o con iperandroginismo hanno un vantaggio sulle avversarie nelle gare femminili? Se a Tokyo 2021 se ne parlò, ma solo a margine, viste le ben altre e più generali problematiche che caratterizzarono i Giochi Olimpici dell’epoca Covid, il tema della partecipazione di queste sportive (transgender e con differenze della differenziazione sessuale) alle competizioni internazionali sembra essere uno dei più scottanti del momento e “sicuramente se ne parlerà molto anche a Parigi 2024”.

Ne è convinta l’avvocata Stella Riberti, dello studio legale Withers, esperta di diritto sportivo e di questioni di D&I. Oggi a tenere banco è il caso (anche giudiziario) della nuotatrice americana Lia Thomas e di tutte coloro che, come lei, vengono escluse dalle gare femminili perché le Federazioni ritengono che la loro condizione porti loro un ingiusto vantaggio competitivo e comporti un rischio per la sicurezza e l’integrità delle loro avversarie. Ma escluderle o prevedere per loro addirittura una terza categoria non è una forma di discriminazione? Come si raggiunge un equilibrio tra i vari aspetti? Ne parliamo con la legale.

L'avvocata Stella Riberti
L'avvocata Stella Riberti

Avvocata iniziamo con un chiarimento: atleti e atlete transgender e con DSD, che differenza c’è?

“Gli atleti che hanno DSD (incluso l’iperandroginismo ad esempio), presentano problematiche congenite fisiche legate nella maggior parte ad un livello eccessivo di testosterone. All’età dello sviluppo della pubertà cambia fisicamente il livello ormonale ma anche quello fisico, cioè si sviluppano gli organi maschili all’interno del corpo femminile. La normativa Ioc è cambiata tra 2010 e 2021, ma già nel 2000 aveva previsto l’obbligo per atlete con queste problematicità di operazioni chirurgiche. Questo è stato molto contestato quindi c’è stata la prima modifica della norma che ha previsto solo la necessità di un trattamento ormonale, come adesso avviene nella maggior parte dei casi, altrimenti sarebbe un’invasione corporea di cui non si conoscono le conseguenze sulla salute della stessa atleta.

La problematica relativa agli atleti transgender è diversa: sono persone che nascono con un determinato genere assegnato alla nascita, che risulta pubblicamente nella carta d’identità e sul passaporto, e che nel corso della loro crescita decidono di mutare. A livello civilistico ci sono norme diverse da quello che accade poi a livello sportivo. Anche la problematica transgender a livello normativo non è semplice da regolare, e attualmente il parametro considerato è l’età della pubertà (presumibilmente 12 anni) perché il cambio successivo di genere può avvenire dopo o solo a livello ormonale (il caso di Lia Thomas) o aggiuntivo rispetto al trattamento chirurgico (che serve ad accelerare i tempi del cambio).

Quindi sono due casistiche geneticamente e fisicamente diverse: una è legata a un problema di testosterone ma non è un cambio di genere rispetto a quello che è stato attribuito alla nascita come invece nel caso transgender.

In quest’ultimo c’è il fattore volontà personale del cambio di genere?

“Sì, e uno dei motivi conclamati da Lia Thomas è: ‘Io non voglio gareggiare nelle competizioni femminili per avere un vantaggio ma voglio gareggiare tra le donne perché mi identifico come femmina’. Quindi lo fa per la sua salute fisica e la sua integrità psicofisica”.

Lia Thomas
Lia Thomas

Come si risolvono i casi (processualmente parlando) in merito?

“La risposta è quella che spesso i giuristi e gli avvocati danno, dipende. Ma è davvero così, non può non prescindere dalla valutazione caso per caso quindi il problema vero è trovare criteri oggettivi ragionevoli e affidabili per regolamentare da parte delle federazioni internazionali i diversi casi. Ovviamente la valutazione della legittimità di queste norme, finché non c’è evidenza scientifica omogenea e comprovata, non deve essere facile e – per fortuna mi viene da dire – la risposta ‘dipende' è davvero così perché nei casi di Dutee Chand e Caster Semenya davvero sono state date, in casistiche simili, due risposte antitetiche da parte della Corte arbitrato, ma tutte e due basate sull’evidenza che era stata portata.

L’onere della prova, che incombe su chi fa valere l’illegittimità della norma, in questo caso la nuotatrice Lia Thomas, non deve essere facile e il supporto scientifico sarà fondamentale”.

La polemica sull’ammissibilità o meno di queste persone alle competizioni riguarda però soprattutto le atlete che hanno fatto il percorso da maschile a femminile?

“È il problema principale, perché se il percorso è inverso, da donna a uomo, non c’è alcun regolamento e non è stata mai vietata la competizione all’interno della categoria maschile. La problematica delle atlete trans sta iniziando a essere regolamentata, ma per le federazioni nasce dal fatto che ci sono principi e linee guida stabiliti dallo Ioc (Comitato olimpico internazionale) che sono cambiati nel corso degli anni.

Tra 2010 e 2015 si andava molto verso la protezione dell’etica, dell’equità competitiva, la fair competition, quindi verso l’esclusione di atlete che presumibilmente avevano dei vantaggi nelle gare in quanto transgender o DSD. Negli anni erano aumentati visibilmente questi casi. Dopo la sentenza Semenya del 2021 lo Ioc ha invece virato verso principi generali che cerchino un bilanciamento tra interessi opposti: da un lato l’inclusione, dall’altro la tutela della salute degli atleti e l’equità competitiva”.

Dutee Chand
Dutee Chand

Ci spieghi meglio queste novità

“Non è facile per lo Ioc: ha stabilito un principio interessante, quello del bilanciamento, che però rende faticoso per le federazioni andare a regolamentare; il comitato dice che non c’è una presunzione di vantaggio competitivo”.

Prima ha citato il caso della mezzofondista sudafricana. Ci ricorda com’è andata?

“Questo è un principio chiave che si è visto nel caso Semenya, che è stato opposto a quello Dutee Chand del 2015: quest’ultima, atleta indiana con DSD, ha impugnato il regolamento dell’allora Iaaf (oggi World Athletics) dicendo che la normativa – che prevede limiti di testosterone per gli atleti che soffrono di questi problemi – ‘è illegittima in quanto discriminatoria’. Il Cas (tribunale sportivo internazionale) ha dato ragione all’atleta perché manca l’evidenza scientifica del vantaggio competitivo. Esattamente opposta la decisione del 2019 nel caso di Semenya, dove sono stati presentati pareri legali e test scientifici non omogenei e il Cas ha stabilito che ‘la normativa Iaaf, nel frattempo resa più stringente, è sì discriminatoria ma questa discriminazione è necessaria e ragionevole per garantire la sicurezza nello sport e per l’equità competitiva, quindi fissiamo questi paletti’. Da questo momento si è anche iniziato a pensare a una open category”.

Cioè?

“Cioè una terza categoria per chi non riesce facilmente a rientrare nelle classiche due, binarie, maschile e femminile. Per il momento mi risultano solo due federazioni, quella del ciclismo e quella del rugby appunto, che spingono perché sia creata. A livello di diritti umani però mi sembra ulteriormente discriminatorio”.

Nessuno ha contestato la decisione su Semenya?

“Lo Ioc è intervenuto subito a modificare le sue linee guida, come detto. Nel 2023 invece la Corte europea dei diritti umani ha ammonito lo Stato svizzero per aver confermato il lodo Tas nel caso Semenya, dicendo che ‘non è stato debitamente preso in considerazione il fatto che quella regola è discriminatoria, per cui non può essere ammessa quella norma comunque perché va a violare i diritti dell’uomo’. Nel bilanciamento degli interessi che lo Ioc ha scaricato sulle federazioni internazionali non si può non considerare anche questo monito”.

Quindi esistono linee guida ma non una norma univoca

“Sì, perché il problema è l’evidenza scientifica. È emerso come questi principi dello Ioc verso una maggior inclusione non bastino. Potrebbe invece esserci dal comitato nei confronti delle federazioni un supporto economico per garantire soprattutto un parametro oggettivo scientifico sulla base del quale queste possano regolamentare. Cambia tantissimo da federazione a federazione, da sport a sport. Se è uno di contatto, come la boxe, è diverso dal caso del nuoto ad esempio, dove il rischio per la sicurezza è ben diverso”.

Caster Semenya
Caster Semenya

Come sono intervenute le federazioni finora?

“La Fina è stata una delle prime, nell’estate 2022 ha regolamentato in senso molto molto restrittivo: le atlete transgender sono ammesse solo se il cambio da maschile a femminile è avvenuto prima della pubertà, quindi entro i 12 anni, e non c’è neanche il parametro del testosterone. Lia Thomas, che ha completato il suo percorso nel 2021, ha impugnato la norma davanti al Caf. Sarà interessante vedere come va a finire, non ci sono casi precedenti da considerare”.

E le altre?

“La prima in assoluto a intervenire è stata la World Athletics nel marzo del 2023 che ha stabilito che se il cambio da maschile a femminile avviene dopo i 12 anni il livello di testosterone deve rimanere inferiore a 2,5 nmol/l di sangue. Hanno fatto seguito, a luglio e agosto, ciclismo e rugby (stesso parametro di testosterone) e poi anche la federazione internazionale di tennis (limite a 5nmol/l). La Wta (regola le competizioni individuali femminili di tennis) invece ha fissato la soglia a 10”.

Ci sono altri casi come quello di Lia Thomas o pensa che sorgeranno altre cause da qui a luglio?

“Nell’atletica ad esempio ci sono casi di atlete escluse dai Giochi olimpici di Parigi 2024, come Alba Diouf. Per Thomas dubito si raggiunga una decisione in tempo per l’evento. Inoltre sono a conoscenza di un caso di un’atleta di uno sport diverso da quelli finora citati che ha combattuto molto a lungo i problemi di iperiandroginismo per ottenere la qualificazione olimpica, che ha conquistato ma che è molto contestata, quindi non so come andrà a finire. Col suo caso ho scoperto che la questione deriva molto da un problema sociale: spesso nei Paesi più poveri, i casi di incesto o di rapporti all’interno della famiglia creano queste problematiche genetiche che sono ereditarie. Ecco perché i casi emersi finora sono soprattutto legati a Paesi asiatici/indiano o dell’Africa”.

Anche la società civile è divisa su questo tema, non sono pochi quelli che sono d’accordo con i divieti…

“Perché queste linee guida sono inevitabilmente discriminatorie ma finché non c’è evidenza scientifica circa il vantaggio competitivo è difficile tracciare una linea nella sabbia. Non è semplice dire se sia giusto o no. Tanto più che i regolamenti, secondo me, dovrebbero anche distinguere tra problematiche di iperandroginismo e problematiche di persone transgender”.