La Legge di Bilancio 2025 ha introdotto importanti novità in materia di congedo parentale. L’obiettivo è incentivare la natalità e, al tempo stesso, sostenere le famiglie con misure studiate per favorire una conciliazione più fluida tra lavoro e vita privata, il che si traduce in maggiori opportunità di sfruttare periodi di congedo per entrambi i genitori, anche se il rischio di effetti collaterali sulle carriere delle donne rimane ancora alto. Da un lato, infatti, le nuove misure incoraggiano un coinvolgimento più attivo dei padri, dall’altro si teme che l’interruzione professionale legata alla maternità continui a pesare soprattutto sulle lavoratrici, continuando ad alimentare quella percezione – ormai ben radicata non soltanto nel nostro Paese – di minore disponibilità sul fronte lavorativo. Per capire meglio le implicazioni di questo quadro e approfondire il tema del “carico mentale” che le donne continuano a sostenere, abbiamo intervistato Francesca Nannetti, Assistant Professor People & Organisations presso la Neoma Business School, che da anni studia l’impatto delle politiche familiari sulle dinamiche professionali.
Professoressa Nannetti, secondo la sua esperienza di ricerca, in che modo le nuove misure sul congedo parentale introdotte nella nuova Legge di Bilancio possono influenzare la percezione e la valutazione professionale delle donne sul mercato del lavoro?
“L’introduzione di queste politiche rappresenta senza dubbio un passo avanti, soprattutto perché offre ai padri maggiore flessibilità e la possibilità di trascorrere più tempo a casa con i figli appena nati o adottati. D’altra parte, dalle mie ricerche emerge in modo chiaro che la genitorialità tende a essere interpretata in modo diverso a seconda del genere. Quando un uomo diventa padre, la percezione che l’azienda ne ha guadagna in positivo, perché la genitorialità lo renderà più stabile e responsabile agli occhi dei suoi capi. Nel caso di una donna, invece, si pensa che da quel momento in poi sarà meno concentrata sul lavoro. Se il congedo rimane opzionale, inoltre, esiste il rischio che, di fatto, siano ancora le madri a utilizzarlo maggiormente, col risultato di alimentare ancor più vecchi stereotipi già consolidati nella nostra cultura. C’è poi la questione legata alla selezione del personale: se si teme che una dipendente possa assentarsi per lunghi periodi, si potrebbe essere meno propensi a investire su di lei. Il congedo parentale è sicuramente un traguardo importante, ma per non generare effetti negativi sulle carriere femminili occorre che sia utilizzato realmente da entrambi i genitori.”
Quali potrebbero essere, dunque, le misure più efficaci per realizzare un cambiamento culturale e promuovere una reale parità di genere?
“In primo luogo, trovo che la formula del congedo obbligatorio e non frazionabile, estesa a madri e padri, potrebbe accelerare la trasformazione culturale. A lungo abbiamo considerato le donne come le principali caregiver e gli uomini invece come i “portatori di reddito”. Se però entrambi i genitori fossero obbligati a un periodo di assenza dal lavoro, verrebbe minato il presupposto che solo la donna debba prendersi cura dei figli: una condivisione più equa riduce gli stereotipi secondo i quali ci sarebbe un unico genitore “naturalmente predisposto” alla cura. Non si parla di un processo semplice né rapido, perché si tratta di cambiare mentalità consolidate. Ma stabilire regole chiare, in cui tutti siano coinvolti nello stesso modo, può dare il via a un percorso nuovo.”
I millennials sembrano avere una naturale, maggiore propensione alla condivisione degli oneri familiari…cosa ne pensa?
“Da quanto ho potuto osservare, i millennials mostrano un’attenzione crescente alla condivisione del “carico mentale” familiare. Spesso i padri di questa fascia di età sono più presenti e partecipi rispetto al passato. Tuttavia, anche in questi casi, tende ad essere la donna a mantenere la responsabilità organizzativa. È lei che pianifica appuntamenti, gestisce l’eventuale baby-sitter o pensa alle scadenze scolastiche dei figli. È un equilibrio diverso rispetto alle generazioni precedenti, ma non ancora ideale, perché il carico strategico e decisionale ricade in misura maggiore sulla madre. Resta comunque, indubbiamente, un segnale positivo: c’è un desiderio di collaborazione più marcato, che potrebbe evolvere nel tempo in una vera e propria parità, anche dal punto di vista dell’organizzazione familiare.”
Guardando a modelli esteri di successo sul fronte del welfare familiare e della parità di genere, quali strategie o buone pratiche ritiene più urgenti da introdurre in Italia?
“Prendiamo ad esempio la Spagna, dove negli ultimi anni è stato introdotto un congedo parentale lungo per entrambi i genitori. Il problema emerso, però, è che i padri tendono spesso a frazionarlo e ad usarlo in periodi poco critici, come l’estate, piuttosto che nelle prime fasi di vita del bambino. In questo modo la responsabilità maggiore rimane comunque alla madre durante il periodo più impegnativo. Un altro modello interessante è quello svedese: sin dagli anni ’70 la Svezia ha adottato un sistema “gender neutral” che assegna a ogni genitore un certo periodo di congedo non trasferibile all’altro, pena la perdita del beneficio. Nel tempo questa cosa ha favorito un graduale riequilibrio del carico familiare. In Francia, invece, si è puntato molto sulla creazione di un sistema capillare di asili nido e assistenza all’infanzia, finanziato da un investimento pubblico elevato, in modo che entrambi i genitori possano rimanere nel mercato del lavoro senza dover rinunciare alla cura dei figli. Credo che in Italia occorra un approccio progressivo, che unisca l’obbligatorietà di certi periodi di congedo per i padri a investimenti più consistenti nei servizi per l’infanzia. È un percorso che richiede tempo, ma i risultati di alcuni Paesi dimostrano che può davvero fare la differenza.”