Sul tema della disforia di genere sono gli adolescenti a guidare il cambio di sensibilità del Paese. Quando si parla di disforia di genere (definita Dis dall’Istituto superiore di sanità) si intende una condizione caratterizzata da una intensa e persistente sofferenza causata dal sentire la propria identità di genere diversa dal proprio sesso. Per la maggior parte delle persone il sesso biologico e l'identità di genere coincidono, mentre per altre, sono diverse. Per esempio, alcune persone si sentono/vivono come una donna, ma sono di sesso biologico maschile o viceversa. Secondo gli ultimi dati, “ma il trend si registra in altri centri italiani, dal 2018 al 2021 c’è stato un incremento del 315% dei ragazzi che hanno affrontato il percorso: un comune segnale del cambiamento culturale in atto su queste tematiche. Gli adolescenti sono portavoce di questo cambiamento che dopo la pandemia è esploso” sostiene Maddalena Mosconi, psicologa e psicoterapeuta del Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica (Saifip) che si trova all’interno dell’Ao San Camillo di Roma, punto di riferimento nella Capitale.
“Già nel 2022 abbiamo più di 100 casi – aggiunge Mosconi –. La pandemia e le sue conseguenze, come il lockdown e l’isolamento, hanno messo tanti ragazzi di fronte alla domanda ‘chi sono?’, sono un ‘maschio o una femmina?’. Quando arrivano da noi inizia un percorso che dura almeno 6 mesi con test e un periodo di osservazione. Solo dopo iniziano la terapia ormonale, parliamo di ragazzi di 12-13 anni, con cui viene messa in pausa la pubertà adolescenziale per 2-3 anni, in cui si continua a lavorare con sedute di psicoterapia”. Questa pausa, precisa la psicologa “è necessaria per fermare i cambiamenti del corpo che non fanno che aumentare la vulnerabilità di chi vuole intraprendere una strada diversa da quella assegnata alla nascita. Poi, compiuti i 16 anni, c’è un ulteriore step con le terapie ormonali, che sono reversibili ma servono per concedere al ragazzo una condizione di neutralità in un periodo delicato”.
Sul caso del ragazzo transgender del liceo Cavour di Roma che ha denunciato di essere stato vittima di un episodio di discriminazione da parte di un suo professore, Masconi chiarisce che “non c’è un normativa chiara e nessuno può obbligare un professore a seguire l’indicazione e chiamare il ragazzo come lui vorrebbe. Ma se il suo comportamento può aumentare la depressione dell’adolescente, il docente deve comunque essere responsabilizzato”. La psicologa ricorda come oggi tante scuole hanno avviato la ‘carriera alias’. “Sono 160 in Italia, compreso il liceo Cavour – dice ancora l’esperta -. Questo strumento permette all’adolescente transgender di cambiare il nome sul registro elettronico, questo per evitare di dover parlare a ogni professore del suo percorso. Il tasso di dispersione scolastica in questi ragazzi era al 38% a fronte del 17% della popolazione generale, oggi grazie anche a questi strumenti è scesa al 6%”. Molto importante nel percorso di disforia di genere è il ruolo dei genitori. “Devono stare accanto ai figli in questo percorso – ricorda la psicologa –. La notizia all’inizio può essere traumatica e c’è una grande variabilità nella risposta. Alcuni arrivano a dire che preferirebbero avere ‘un figlio morto che così’, noi facciamo un colloquio con i genitori da soli e poi anche con tutta la famiglia. Poi quando vedono che il proprio figlio sta meglio, riprende ad andare a scuola o ad uscire, i genitori sono contenti”. Un tempo chi affrontava la disforia di genere aspirava a cambiare sesso in modo netto, con la chirurgia. “Oggi non è più così – conclude Mosconi – soprattutto con il cambio della legge che prevedeva la falloplastica per poter avere i documenti aggiornati. Ora invece si può fare anche senza doversi sottoporre per forza all’operazione. Dobbiamo capire che non c’è un binarismo sessuale, ma un continuum con tante possibilità da esplorare”.