“Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza”. Le parole di Nicola Turetta, papà di Filippo, reo confesso per il femminicidio di Giulia Cecchettin, sono quelle un uomo distrutto, devastato, la cui vita è stata inevitabilmente sconvolta da quanto fatto dal figlio.
Non lo diciamo per giustificarlo, perché queste parole sono gravi e pericolose allo stesso tempo, ma non possiamo prescindere dal contesto in cui vengono pronunciate: è impossibile immaginare cosa provi un padre o una madre il cui figlio si macchia di un reato tanto grave, tanto orribile come l’uccisione di una persona, di una ragazza, a poco più di vent’anni. Possiamo ipotizzare solo il dolore provato da una famiglia che, come quella della vittima in altra misura e in altri termini, non sarà più la stessa dopo il fatto.
Detto questo, comunque, non possiamo prescindere dal commentare queste frasi, che pur nella sofferenza del momento – risalgono a un colloquio che Nicola Turetta, assieme alla moglie, ha avuto il 3 dicembre scorso nel carcere di Verona con il 22enne – sottintendono una visione distorta dei fatti. Perché no, non è vero che Filippo Turetta non è “uno che ammazza le persone”, visto che ha ucciso con oltre 70 coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, infierendo su di lei con violenza, in un piano studiato e non, come spesso si vede scritto sui giornali in casi simili, per un “raptus improvviso”. Non è stato un “momento di debolezza”, non si può sminuire così un gesto tanto inumano che segue mesi di persecuzioni, di messaggi assillanti perché la studentessa tornasse con lui, perché non lo abbandonasse laureandosi e scegliendo di proseguire gli studi e la propria vita altrove. Non si può giustificare così un femminicidio.
È vero, però, come aggiunge il padre rivolgendosi al giovane in carcere da pochi giorni: “Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l'unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare”, dice l’uomo, aggrappandosi alla speranza di un futuro per il figlio oltre la detenzione.
La conversazione, intercettata dagli investigatori e all’interno del fascicolo processuale, è stata pubblicata dal settimanale Giallo e riportata oggi dal Corriere della Sera e da L'Arena di Verona. Si è trattato del primo incontro dei genitori con Turetta, dopo la sua cattura in Germania al termine della fuga dopo l'uccisione e l'abbandono del corpo di Giulia in un bosco in Friuli. Nel colloquio il ragazzo avrebbe chiesto al padre se fosse stato licenziato per colpa sua.
Dalle frasi di Nicola Turetta emerge un tentativo di rincuorare il figlio, più che riandare al delitto: “Ci sono altri 200 femminicidi. Poi avrai i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale. Non sei stato te, non ti devi dare colpe perché tu non potevi controllarti”. Altro tentativo di negare un’evidenza che sarebbe emersa di lì a poco, con la confessione, con il racconto dettagliato di quella sera dell’11 novembre quando si è compiuto il femminicidio.
Ce ne sono tanti, sì, di uomini che uccidono le donne in Italia. È una drammatica realtà. E Filippo Turetta fa parte di questi, che suo padre riesca ad accettarlo o meno non ha rilevanza. Non si può cancellare la crudeltà di quella violenza, anche se ci prova, dicendo che il suo ragazzo non poteva controllarsi. Forse ha sottovalutato i campanelli d’allarme, che ora a mesi di distanza sappiamo esserci stati, forse l’amore per il figlio gli rende impossibile accettare che sia stato capace di uccidere consapevolmente. Ma parlare di momento di debolezza, di mancanza di controllo è pericoloso per lui e soprattutto per chi legge oggi quelle parole, perché rischia di passare come un tentativo di giustificazione dell’assassino, a scapito della vittima, che è e rimane Giulia Cecchettin.
Il genitore, a fine colloquio, chiede al ragazzo come si fossero comportati i magistrati con lui, e Filippo risponde “meglio di quello che mi aspettavo” ed esprime infine il timore di essere lasciato dall'avvocato, Giovanni Caruso: “Magari non ce la faccio a riferirgli tutto, io non ho detto tutto”. Mancava la confessione completa, che poi è arrivata. E ha confermato quello che quel femminicidio non era un fatto accaduto per caso, ma frutto di una volontà ben precisa di legare per sempre a sé quella ragazza che voleva essere libera, anche a costo di ucciderla.