
L’80% delle microplastiche trovate nei pesci erano fibre tessili, provenienti principalmente dall’industria dell’abbigliamento e dal lavaggio dei vestiti sintetici
Del fatto che le microplastiche fossero oramai ovunque sapevamo già. Ma che fossero così diffuse ancora no. Fa scalpore dunque il recente studio condotto in Oregon che ha rivelato come il 99% dei campioni di pesce analizzati contenga microplastiche, evidenziando l’ampia diffusione di questi inquinanti nei mari e nei prodotti alimentari.
La ricerca, intitolata “Dall’oceano al tavolo della cucina: particelle antropogeniche nel tessuto commestibile delle specie ittiche della West Coast degli Stati Uniti” è a cura di ricercatori afferenti al dipartimento di scienze e gestione ambientale della Portland State University e di scienze della pesca, della fauna selvatica e della conservazione della Oregon State University.
L’onnipresenza dei vestiti sintetici
La ricerca, che ha coinvolto diverse specie di pesci e crostacei tra cui salmone Chinook, gambero rosa e merluzzo) ha rivelato che praticamente ogni esemplare analizzato avesse ingerito della plastica; e ha inoltre rivelato che oltre l’80% delle microplastiche trovate nei pesci erano fibre tessili, provenienti principalmente dall’industria dell’abbigliamento e dal lavaggio dei vestiti sintetici. Fatto che pone una luce ulteriormente sinistra sul fenomeno della fast fashion che tanto impatta sugli equilibri ambientali, producendo danni alla natura e devastando interi territori, come dimostrano i fiumi di scarti tessili in Bangladesh.

Le microplastiche, infatti, sono frammenti di plastica inferiori ai 5 millimetri e derivano dalla degradazione di materiali plastici più grandi provenienti da molte fonti, tra cui il lavaggio dei tessuti sintetici, i cosmetici. Ma come arriva nei tessuti animali questa plastica? Semplice: i pesci la ingeriscono direttamente dall’acqua oppure nutrendosi, attraverso il cibo ingerito. I pesci più piccoli e i crostacei, risultano essere le specie più contaminate, in quanto il plancton, di cui si nutrono, tende a raccogliere le particelle di plastica sospese nell’acqua, trasferendole agli organismi che lo assumono.
Paradossalmente le specie più grandi come il salmone Chinook presentano livelli inferiori di microplastiche. Ma questo potrebbe derivare dal fatto che le analisi sono state condotte solo sui filetti, escludendo le interiora, dove i contaminanti si accumulano maggiormente.
Pfas, ftalati e bisfenolo
Naturalmente la ricerca segna un ulteriore campanello d’allarme per la specie umana. Sono numerosi ormai infatti gli studi scientifici che hanno dimostrato come queste particelle possono contenere sostanze tossiche come Pfas, ftalati e bisfenolo, che possono alterare le funzioni biologiche ed organiche del nostro corpo, attraverso interferenze endocrine, determinando potenziali rischi a livello oncologico e conseguenze ancora non completamente comprese su altre patologie, in quanto, data la loro natura e conformazione, si insinuano nel sangue, negli organi e persino nella placenta.
Un problema allarmante se si pensa che secondo uno studio dell’Ifremer, sono ben 24.400 miliardi le microplastiche che galleggiano sulla superficie degli oceani. Secondo l’Istituto superiore di sanità la concentrazione delle microplastiche in ambiente marino è pari a circa 102.000 per metro cubo, ed è ancora più elevata nelle zone vicine ai siti di smaltimento rifiuti, agli impianti di trattamento delle acque, ai porti. La maggior parte (circa il 64%) delle microplastiche identificate è in forma di fibre, il resto in frammenti.
Microplastiche nel cibo
Sulla base di questi dati, Efsa ha effettuato una stima dell’esposizione umana alle microplastiche considerando il consumo di una porzione da 225 grammi di cozze (poiché le cozze sono consumate senza la rimozione dei visceri) e usando la più alta concentrazione di microplastiche rilevata nei molluschi. In tal modo si è calcolata un’ingestione di 900 pezzi.
La contaminazione ambientale riguarda anche le acque dolci, i sedimenti, il terreno e l’aria. Diversi studi suggeriscono che il loro inquinamento può essere anche maggiore rispetto a quello dei mari e, dunque, anche esse rappresentano una fonte di esposizione per l’uomo.
Le microplastiche sono state riscontrate anche in altri alimenti: nel sale, con concentrazioni comprese fra 0,007 e 0,68 per grammo; nella birra, in cui fibre, frammenti e granuli di microplastiche ammontano a 0,025, 0,033 e 0,017 per millilitro; nel miele, 0,166 fibre per grammo; nell’acqua in bottiglia, 94,37 per litro, e in quella del rubinetto, 4,23 per litro. Insomma. La diffusione è capillare. Per questo è fondamentale ridurre l’uso della plastica, migliorare i sistemi di filtraggio delle acque e promuovere politiche di riduzione delle emissioni di microplastiche.