
Ci sgridano perché siamo superficiali ma siamo solo stanchi e disillusi (Foto/Karla Rivera)
Quando sono nato, nel 1987, le donne portavano ancora enormi spalline e chiome feline vittime di potenti permanenti, tutto appariva fluo e divertente, psichedelico e notturno, i gloriosi anni ’80 stavano per finire ma anche i ’90 hanno avuto uno slancio di benessere ed equilibrio nell’emisfero fortunato del pianeta. Se poi nascevi nel quartiere bolla di una grande città allora potevi serenamente pensare che la tua vita sarebbe stata felice e spensierata tra case che non finiscono più, stimoli culturali sopra la media, amicizie importanti e consolidate.
Ma siamo cresciuti, festeggiato il capodanno 2000 con le prime ansie per il millenium bug, abbiamo fatto la coda in banca per i primi contanti in euro, aperto il banco posta per gli acquisti più sbagliati su siti Internet fraudolenti, sperimentato le primordiali piattaforme di messaggistica. Eravamo entusiasti e confusi su questi cambiamenti socio-culturali e ancora oggi riconoscendone l’enorme vantaggio siamo consapevoli che a priori forse doveva esserci inculcata una maggiore consapevolezza, sui rischi e sull’impatto nelle nostre vite.

Ora che non sappiamo girare una città senza maps dovremmo ricordarci di quelle mappe consumate dal sole che i nostri genitori tenevano nel cruscotto dell’auto insegnandoci a navigare le strade della vita, oggi che mandiamo avanti ogni canzone che ci annoia dovremmo ricordare di quando eravamo costretti ad ascoltare le stesse tre musicassette per tutta l’estate negli eterni viaggi verso i luoghi di vacanze.
Noi trentenni siamo nostalgici per antonomasia perché non abbiamo avuto modo di digerire il ciclone di eventi che ci hanno, scusate il termine, rincoglionito come schiaffi a mani fredde in pieno volto. Uno dietro l’altro. Dall’11 settembre alla recessione economica proprio quando muovevamo i primi timidi passi verso il mondo del lavoro. “Che cosa vuoi fare da grande?” ci chiedevano quando eravamo piccoli e si rispondeva chi il medico, chi la maestra, chi l’astronauta, assenti invece il social media manager, l’influencer, il digital pr o il mental coach, semplicemente perché li abbiamo inventati noi questi mestieri che producono economie e derisioni. Ci dicevano che dovevamo studiare e laurearci, diventare professionisti affermati, guai a capire di non essere allineati all’avvocatura ma più abili con le mani, impensabile dire a voce alta di voler imparare un mestiere. La scrivania, quello era l’obbiettivo, il posto fisso, immobile, a vita. E infatti rincorriamo ancora il mito pur sapendo che è una casta d’élite a ottenerlo e mentre facciamo i nomadi digitali lavorando su fusi diversi ci sentiamo in colpa per aver preso una strada che non corrisponde a quanto sperato dalla generazione prima di noi.
Ci sgridano perché non ci sono più artigiani ma sono loro che non hanno attratto giovani leve quando potevano.
Ci sgridano perché siamo superficiali ma siamo solo stanchi e disillusi.
Ci sgridano perché non abbiamo voglia di lavorare ma chi l’avrebbe se la crescita professionale ha una pendenza del 90% e inizia da uno stage non retribuito senza nemmeno il rimborso spese?
Siamo mammoni e rimaniamo in casa nella nostra cameretta troppo a lungo, ma come si fa a uscire dal guscio se un posto letto in una doppia costa 450 euro? E abbiamo fatto i camerieri pagati in nero, le stagioni nei villaggi turistici, i promoter di telefonia, i bagnini e le ragazze alla pari.

Siamo andati anche all’estero a imparare l’inglese e ci chiamano cervelli in fuga, lì almeno l’affitto non mette ansia sociale e seppur sia dura stare lontani da affetti e famiglia si scopre spesso una civiltà che funziona e si rimane. “Ingrati”, ci dicono, “vi istruiamo con i soldi pubblici e poi ve ne andate” e ritorna lo stigma che fin da piccoli ci inculcano come peccato originale.
Siamo la generazione che più di tutte ha sperimentato la psicoterapia a tutti i livelli, magari non si arriva a fine mese ma le sedute non si saltano mai proprio perché abbiamo la consapevolezza che nello sgretolarsi continuo di sogni e speranze ciò che deve rimanere saldo siamo noi, la nostra integrità morale e mentale.
Lavoriamo e ci reinventiamo ciclicamente (più mestieri noi in 10 anni che i nostri genitori nella loro vita) senza il lusso di assicurarsi una pensione dignitosa nella nostra seconda casa (manco la prima abbiamo!), licenziati o in cassa integrazione (fasulla, ndr) durante i vari lockdown e ci dicono “trovati una fatica” mentre la tua partita iva ingrana e soprattutto non evade.
Si scatena l’ansia del calo demografico ma nessuno punta il dito sull’asilo nido che costa 700 euro, su due stipendi che non bastano per mantenere un figlio (all’estero ne possono fare quattro portandoli a scuola in bicicletta), sulle donne che nella maggior parte dei casi devono rimandare una desiderata gravidanza per favorire la carriera che le appassiona (altro stigma, ndr).
Noi trentenni non siamo disfattisti, acidi o rancorosi, siamo solo concentrati sui nostri passi perché abbiamo imparato a calibrarne la lunghezza per non cadere nei tranelli di speranza che tante volte ci hanno ingannato.