L’effetto Cecchettin e l’addio al raptus. Com’è cambiato il giornalismo italiano quando si parla di violenza di genere

Tra passi avanti, stereotipi che resistono e nuove sfide, il report dell'Osservatorio Step sulla narrazione della violenza sulle donne mostra che in effetti qualcosa è cambiato. Ma si può migliorare

di CLARA LATORRACA
11 aprile 2025
Il murale dedicato a Giulia Cecchettin realizzato a Milano dall’artista Fabio Ingrassia

Il murale dedicato a Giulia Cecchettin realizzato a Milano dall’artista Fabio Ingrassia

Nelle notizie riguardanti casi di violenza di genere, si usa meno la parola "raptus" e si scrivono più approfondimenti, ma rimane l'empatia nei confronti del colpevole e la spettacolarizzazione nei casi di stupro e violenza sessuale. È quanto emerge dal report dell'Osservatorio Step sulla narrazione della violenza sulle donne da parte dei giornali italiani. 

Il documento, riguardante il 2024, è realizzato dall’Osservatorio Step-Ricerca e Informazione e promosso dall’Università Sapienza di Roma in collaborazione con l’Università della Tuscia, le Cpo di FNSI ed USIGRAI, il Comitato pari opportunità dell’Ordine dei Giornalisti e GiULiA (GIornaliste Unite LIbere Autonome).

L’Osservatorio monitora quotidianamente il racconto della violenza di genere su 25 testate nazionali con lo scopo di verificare i progressi dell’applicazione delle raccomandazioni del Manifesto di Venezia e di contribuire a una corretta rappresentazione del fenomeno nel racconto giornalistico. Perché il racconto a mezzo stampa “porta con sé la responsabilità sociale dell’interpretazione del fenomeno e del contributo al dibattito pubblico”, scrive GiULiA sul proprio sito.

Il racconto della violenza di genere in Italia

Nel 2024 in Italia - secondo il report della Polizia di Stato - si sono registrati 113 femminicidi, di cui 99 in ambito familiare o affettivo. Questa rappresenta la forma di violenza su cui si focalizzano la maggior parte degli articoli relativi al tema della violenza di genere (25%), seguita da violenza sessuale (20%), lesioni personali (18%), violenza domestica (17%), stalking e atti persecutori (8%). Di revenge porn e molestie sessuali si parla nel 2% degli articoli.

La scelta delle parole

La narrazione mediatica di questi crimini varia a seconda del contesto e dei protagonisti, sollevando interrogativi sull'impatto del linguaggio giornalistico nella comprensione delle responsabilità e nella percezione delle vittime. La scelta delle parole ha infatti un’influenza sulla percezione da parte del pubblico di un crimine: scegliere di scrivere “tragedia” piuttosto che “omicidio” rischia di attenuare le responsabilità del colpevole.

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L'opera della street artist Laika dal titolo 'Smash the patriarchy', che raffigura Giulia Cecchettin e Gisele Pelicot

Sebbene perduri la presenza di stereotipi patriarcali nel racconto della violenza di genere, c’è una graduale evoluzione verso una narrazione più consapevole e centrata sulla vittima. Il termine “raptus” - che tende a minimizzare la gravità e la complessità del crimine, distorcendo la percezione delle responsabilità del colpevole - è fortunatamente sempre meno utilizzato. Ma vi si ricorre ancora quando si riportano, negli articoli, alcuni passaggi ricavati dalle arringhe degli avvocati, dalle requisitorie dei pubblici ministeri, o da sentenze dei giudici.

Quando i casi di violenza riguardano bambine o ragazze, permane il problema dei diminutivi e vezzeggiativi come “fidanzatino” o “ragazzino”, che rischiano di suggerire attenuanti legate all’età. GiULiA nota in particolare l’uso di termini come “baby killer” o “baby femminicidio”, che screditano la gravità del crimine commesso.

La vittima e il colpevole

L’empatia nei confronti di chi perpetra la violenza rimane ancora frequente, soprattutto nei titoli che riportano le “motivazioni” del colpevole - talvolta colpevolizzando la vittima -, piuttosto che dare spazio alla donna. Si nota però un miglioramento: in passato i giornali tendevano a enfatizzare maggiormente aspetti marginali della vita del colpevole, come la carriera; oggi l’attenzione inizia a spostarsi sulle sue responsabilità nel delitto.

Perdura però - nella titolazione e nel testo degli articoli - il riferimento all’etnia di vittime e autori della violenza, che a volte è corretto se serve a contestualizzare, ma in altri casi induce una lettura “politica” della violenza, anche a fini strumentali.

Effetto Cecchettin

Il caso del femminicidio di Giulia Cecchettin ha segnato un’importante svolta nella narrazione mediatica. L’omicidio della studentessa per mano dell’ex ragazzo non ha solo “dato un impulso forte alla denuncia, o comunque a rivolgersi a centri antiviolenza, da parte di donne, giovani o meno giovani, che si sono riconosciute in alcuni comportamenti di partner o ex partner”, ma ha anche modificato il modo in cui i giornali si occupano del tema, “cambiando sia la costruzione dell’articolo, sia i termini usati, sia ancora la titolazione e la scelta giornalistica di non limitarsi alla cronaca, ma di sviluppare il fatto con commenti di esperte ed esperti”, si legge nel report.

Tuttavia, se la narrazione dei femminicidi ha visto dei miglioramenti sostanziali, la narrazione dei casi di stupro e violenza sessuale rimane spettacolarizzata e colpevolizzante per la vittima. E sono frequenti le narrazioni giustificative.

Il compito del giornalismo

È evidente che il racconto della violenza sulle donne non può limitarsi a riportare i fatti. Deve saperli interpretare, contestualizzare e soprattutto nominare con precisione e responsabilità. Perché le parole e le modalità scelte non sono mai neutre: possono contribuire alla giustizia o perpetuare stereotipi.

Il giornalismo ha il dovere di esercitare un controllo critico sulla società e sulle sue istituzioni, ma anche su se stesso, sulle proprie narrazioni, sul proprio linguaggio. Il suo ruolo di "cane da guardia della democrazia" si estende anche alla rappresentazione della violenza di genere: denunciare le omissioni, smascherare le complicità culturali, evitare le scorciatoie retoriche. In un’Italia che ha iniziato a interrogarsi, anche grazie al coraggio delle vittime e alla forza della denuncia pubblica, l’informazione deve farsi strumento di consapevolezza collettiva e parte attiva di un cambiamento culturale profondo, che rimetta al centro le donne, la loro voce e il loro diritto ad essere raccontate con rispetto.

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