
Un ragazzo indossa la mascherina
Siate sinceri: a chi non è mai capitato di essere sfiorato dal pensiero che, tutto sommato, durante la quarantena – ai tempi delle prime zone rosse – non si stava poi così male? Se avete tentennato prima di rispondere, per paura di essere fraintesi, non sentitevi in colpa: siete in ottima compagnia. Quella che vi assale non è nostalgia della quarantena in sé, ma di qualcosa di più profondo. A mancare, infatti, non è il lockdown in senso stretto, ma l’idea di un mondo che, per un attimo, sembrava essersi fermato.
Nel marzo di cinque anni fa, ovunque nel mondo, le nostre vite hanno subito un arresto improvviso. La routine quotidiana è stata spazzata via da una nuova normalità fatta di tempi dilatati, introspezione, canti dai balconi e tantissimi “andrà tutto bene”. Il mondo, non fosse stato per la paura del virus che seminava terrore e morte, sembrava – paradossalmente – un posto più vivibile. Le strade deserte, il tempo finalmente a disposizione delle persone, le attività domestiche e personali che tornavano a essere cool. Ci siamo scoperti più vulnerabili ma, al tempo stesso, più vicini. Ci siamo concessi di riscoprire il silenzio, di tornare a dare valore a gesti semplici.
Tutto aveva assunto una dimensione più umana, tanto da illuderci che ne avremmo tratto una lezione, che da lì sarebbe nata una nuova consapevolezza, un presente più sostenibile. La sospensione dalle pressioni del mondo è stata vissuta da molte e molti come una liberazione. Non vale per chi ha affrontato la pandemia in solitudine, ha dovuto dire addio a persone care o ha perso il lavoro, certo, ma per alcuni, quell’interruzione forzata ha avuto addirittura il sapore di una tregua. Un tempo sospeso che, in un certo senso, ci ha permesso di rallentare, di prendere fiato, di guardare alla nostra vita con un’attenzione nuova. Peccato che, una volta finita l’emergenza, la normalità sia tornata a essere quella di prima. Anzi, in alcuni casi è persino peggiorata.
L’iper-produttività, la corsa verso qualcosa di inafferrabile, il susseguirsi interminabile di obiettivi – piccoli e grandi – da raggiungere, sono solo alcuni dei tic contemporanei che tengono le nostre vite in ostaggio. Siamo tornati a un mondo che non vuole fare i conti con la propria insostenibilità, dove il tempo è – letteralmente – denaro e il riposo è quasi una colpa. Tutto si muove a velocità folle, come se non ci fosse un domani, come se fermarsi significasse perdere qualcosa di vitale. Il problema è che, così facendo, si perde di vista la cosa più importante: la qualità della vita.
Eppure, quel tempo sospeso ci aveva mostrato qualcosa di diverso. Ci aveva fatto riscoprire il valore di un tempo libero dall’ossessione di dover produrre. Oggi, invece, il tempo sembra non appartenerci più: è diventato qualcosa contro cui combattere, una risorsa da ottimizzare fino allo sfinimento. La performance è tutto ciò che conta, soprattutto se raccontata sui social. La normalità a cui siamo tornati può essere chiamata in molti modi, ma di certo non libertà. Quindi, se anche voi provate nostalgia per la quarantena, non sentitevi in colpa. Non state rimpiangendo i tempi del Covid, ma realizzando che oltre lavoro e consumo c’è di più. E che quel “di più” è qualcosa di afferrabile, se solo lo volessimo. Quella che provate non è nostalgia del passato, ma di futuro, di un domani che avrebbe potuto essere diverso e che invece si è trasformato in un presente ancora più schizofrenico.
Alla luce di tutto questo, la vera domanda è: serve davvero attendere il peggio per accorgerci del meglio? O esiste un modo per riappropriarsi del proprio tempo, senza dover aspettare un’altra emergenza globale? Lo sforzo è enorme, certo, perché significa andare controcorrente, rallentare in un mondo che ci vuole sempre veloci, rimettere al centro il benessere e non solo la produttività. Ma il sacrificio – quello della lentezza in un mondo follemente veloce – vale la pena. Perché la vista da lassù è bellissima.