Anna Maria Zucca è l’anima del progetto Sos nato per assistere e sostenere i figli delle vittime di femminicidio. Ragazzi e ragazze spesso rimasti senza assistenza e privi di qualcuno che si prenda cura di loro, orfani e orfane che a causa di queste morti violente vedono all’improvviso crollare il loro mondo. Il programma d’accoglienza di questi ‘casi speciali’ si inserisce all’interno dell’Associazione Emma Onlus, capofila di numerosi centri antiviolenza in Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta.
Attualmente Sos accoglie una trentina di orfani di femminicidio, ma la fondatrice Zucca insiste sull’urgenza di una diffusione capillare del progetto, al fine di poter garantire aiuto a tutti quei ragazzi che stanno vivendo un trauma indicibile, un dramma esistenziale dalle conseguenze incalcolabili. “L’amore tossico può uccidere e le violenze domestiche sono in crescita costante nel nostro Paese, così come rivelato dagli stessi dati dei centri antiviolenza Emma”.
Per Anna Maria è indispensabile perciò un’attività intensa di sensibilizzazione e prevenzione, considerando la violenza di genere e le sue conseguenze come le massime sfide per la società odierna: “La nostra è ancora una società che tende ad assolvere e giustificare la violenza di genere. Quante donne minacciate e prese a botte dal marito arrivano nonostante tutto ad affermare: ‘ma in fondo è un lavoratore, un buon padre …’. Come può essere un buon padre chi cresce i figli in un costante clima di violenza? ‘Mi picchia perché mi vuole bene’ è una frase orribile che vorrei proprio non sentire mai più”.
Anna Maria, come e quando nasce il progetto?
“Il progetto S.O.S è nato tre anni fa, selezionato dalla impresa sociale ‘Con I Bambini’ che aveva indetto un bando nazionale per il sostegno a orfane e orfane di femminicidio. Si tratta di vittime, spesso dimenticate, della forma più grave di violenza contro le donne, violenza che affonda in radici culturali inclini ancora oggi a giustificarla, a minimizzarla. Oltre ad offrire aiuti concreti a loro e alle loro nuove famiglie, il progetto si prefigge non solo di aiutare gli orfani e orfane ad affrontare il trauma della perdita ma anche a cercare di elaborare certe dinamiche violente che hanno vissuto e subito in quel nucleo familiare. A riguardo è opportuno sottolineare come il femminicidio sia solo l’apice della violenza di genere, come si suol dire ‘la punta dell’iceberg’”.
Quali sono le modalità di approccio a questo genere di problema?
“Il progetto S.O.S si avvale dell’esperienza di ascolto empatico dei ‘Centri Anti Violenza Emma’, capofila della cordata pronta a offrire concreto sostegno a orfani e orfane di femminicidio, da 0 a 21 anni, residenti in Piemonte Liguria e Valle D’Aosta. A Torino abbiamo aperto il primo centro italiano interamente dedicato a chi, in un attimo, ha perso sia la madre che il padre, spesso suicida o chiuso in carcere. Il Centro è innanzitutto un luogo accogliente al quale oggi fanno riferimento i quasi 30 che hanno scelto di aderire al progetto.
I colloqui con i ragazzi e le famiglie affidatarie fanno subito emergere bisogni impellenti a cui cerchiamo di rispondere anche grazie ai fondi messi a disposizione del Progetto dalla Fondazione per il contrasto alla povertà minorile. Gli aiuti, che noi chiamiamo doti, sono definiti caso per caso: sostegni economici per cure mediche, per lo studio, per percorsi di formazione ma anche per fare sport o seguire corsi di musica. Impegni onerosi che, spesso, le famiglie affidatarie non si possono permettere. Inoltre garantiamo assistenza legale per tentare di ottenere i benefici previsti per gli orfani di femminicidio dalla legge 4 del 2018”.
Come reagiscono di solito le vittime? Riescono a stabilire un rapporto con il genitore rimasto, responsabile di gesti violenti?
“Stabilire un rapporto con il genitore, autore di gesti violenti, è sempre molto complicato e difficile, in base alle storie che abbiamo raccolto. Chi, raggiunta la maggiore età, ha deciso di incontrare il padre in carcere quasi sempre non ha trovato le riposte che cercava. La ragione è che raramente gli autori di femminicidio aderiscono ai necessari percorsi di consapevolezza; anzi, nella maggior parte dei casi cercano ancora assurde giustificazioni e non smettono di scaricare la colpa su chi ha subito la loro violenza. In un quadro simile il centro viene percepito dai ragazzi come un luogo finalmente sicuro e quindi la loro esperienza qui è molto positiva, perché si sentono ben accolti”.
Quindi è molto difficile che i responsabili di femminicidio si mostrino collaborativi…
“E praticamente escluso ed è uno dei motivi principali che ci spinge, come gli altri Centri antiviolenza, ad accogliere e sostenere con questo nostro progetto solo chi subisce violenza e non chi la esercita, concentrandoci unicamente sulle loro tante necessità”.
Si osservano, per dipendenza filiale, atteggiamenti “assolutori” da correggere con interventi mirati?
“La nostra è ancora una società che ‘assolve’ e ‘giustifica’ la violenza di genere. Quante donne minacciate dal marito arrivano ad affermare: ‘ma in fondo è un buon padre’. Come può essere un buon padre chi cresce i figli in un clima di violenza? Questi atteggiamenti non mancano di avere ricadute anche sulle generazioni del nostro tempo: a tal proposito cito una recente ricerca dell’Istat in cui si sostiene che il 10 per cento dei giovani ritiene giusto controllare il cellulare della fidanzata. Questi comportamenti sono destinati ad alimentare rapporti non equilibrati, specialmente basati sulla disparità di genere, sulla prevaricazione. E’ per questo che il Progetto S.O.S prevede anche l’attività di sensibilizzazione all’interno delle scuole indirizzata alla formazione di allievi e docenti”.
In che modo incentivate un valido inserimento nel mondo della scuola o del lavoro?
“Il progetto si avvale della collaborazione di cooperative sociali ed enti specializzati nel dare sostegno allo studio e a diversi percorsi formativi. Tuttavia non si deve prescindere dal fatto che ogni storia è diversa, quindi il nostro obiettivo è prestare aiuto e sostegno indirizzando i ragazzi a intraprendere la strada che sentono più adatta e migliore per loro”.
Le maggiori difficoltà?
“In assenza di una anagrafe nazionale una delle maggiori difficoltà è stata far conoscere il nostro programma ai potenziali beneficiari, che spesso scelgono di vivere nell’ombra. Possono in molti casi cambiare cognome o spostarsi in altre regioni per andare a vivere con i parenti, oppure vanno ad abitare con le nuove famiglie a cui sono stati affidati . Per raggiungerli, sempre in punta di piedi e senza violare il loro diritto a nascondersi, abbiamo cercato di farci conoscere attraverso la rete dei servizi sociali e quella dell’ordine professionale degli avvocati. In realtà è stato un lavoro lungo e impegnativo che soltanto in tempi recenti sta dando buoni risultati”.
Il vostro intento è quello di accompagnare questi ragazzi fino all’emancipazione dell’età adulta. Quali rischi e quali i motivi di speranza?
“Noi li possiamo accompagnare fino al compimento del ventunesimo anno. Sappiamo che la ferita che hanno subito sarà impossibile da cancellare. Tuttavia confidiamo che il nostro sostegno possa aiutarli a diventare uomini e donne, madri e padri, capaci di costruire relazioni equilibrate, basate sul rispetto, sulla parità e sull’amore vero, quello che accarezza senza schiacciare”.