“Parole che uniscono”: come il linguaggio forma la coscienza sociale

Al Festival di Luce! i membri del comitato scientifico Anna Loretoni, Ivan Cotroneo, Francesca Vecchioni e Luca Trapanese, con la campionessa paralimpica Valentina Petrillo

di COSTANZA CHIRDO -
20 ottobre 2024
Festival Luce!

Firenze, Palazzo Vecchio, 4° edizione Festival Luce! Valerio Baroncini intervista Anna Loretoni, Ivan Cotroneo, Valentina Petrillo, Luca Trapanese, Francesca Vecchioni (New Press Photo)

Firenze, 20 ottobre 2024 – Quanto è importante il peso delle parole nella comunicazione politica e pubblica? Ne hanno discusso Ivan Cotroneo, Anna Loretoni, Valentina Petrillo, Luca Trapanese e Francesca Vecchioni in occasione della quarta edizione del festival di Luce!, sabato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze.

Nel corso dell’intervento, gli interlocutori si sono interrogati sull’effettivo potere della comunicazione inclusiva nel sociale, sull’impatto del linguaggio nella nostra percezione della realtà e degli altri – un impatto di cui spesso non riusciamo a renderci conto. Autrice e docente alla Scuola Superiore Sant’Anna, Loretoni è intervenuta per prima parlando dell’uso delle parole nel contesto della violenza di genere: “Il linguaggio può provocare e intimidire stereotipi e pregiudizi – ha detto –. Nel caso della violenza, spesso certi stereotipi la rendono possibile perché la trasformano in una parte dell’immaginario sociale, come se fosse qualcosa di normale”. Allo stesso modo però, così come il linguaggio produce pregiudizi e stereotipi, “può anche distruggerli”.

“Il potere delle parole è che possono diventare comportamenti, e dunque avere un impatto concreto” racconta Vecchioni, scrittrice, formatrice, attivista, esperta di linguaggi inclusivi, hate speech e diritti civili. “È stato dimostrato che il dolore provato dall’esclusione (anche verbale, ndr.) provoca nel cervello la stessa reazione del dolore fisico – ha spiegato –. Per capire che linguaggio utilizzare al fine di ferire meno le persone, bisogna lavorare con le comunità e i gruppi meno ascoltati e meno visti. Siamo in una società che nega l’esistenza di tante persone, e lo fa anche attraverso il linguaggio. Questo comporta la nostra incapacità di parlare usando le parole corrette”.

L’importanza di eliminare determinati cliché è stata sottolineata anche da Cotroneo, scrittore e sceneggiatore che ha parlato della necessità di intervenire nel settore audiovisivo per “aiutare tutti coloro che non sono rappresentati nel modo giusto”. Tra questi, le persone transgender, che hanno una lunga storia di rappresentazione distorta e discriminatoria contro la quale si sta ancora lottando, anche nel mondo dell’audiovisivo. “Il termine ‘M to F’, ad esempio, è sbagliato – ha spiegato Cotroneo –. Oggi si preferisce utilizzare, ade esempio per una donna trangender, la parola amab, che è un acronimo di ‘assegnata maschio alla nascita’. Molte persone si sentono donne dalla nascita, anche se ufficialmente vengono registrate come uomini”.

Toccante l’intervento di Petrillo, atleta paralimpica e prima donna transgender a partecipare alle Paralimpiadi. La 50enne partenopea adottata dalla città di Bologna, dove vive e si allena, ha raccontato la sua storia, e di come non si ritenga una persona coraggiosa per aver cominciato la transizione: “È stata un meccanismo di sopravvivenza – ha detto –. Io non volevo più vivere”. “Sono un’atleta, ma nonostante questo la stampa preferisce parlare di me come persona trans, e non in termini sportivi. A volte usano il mio dead name – ha continuato –. Su questo ci dobbiamo interrogare. Le parole fanno male, fanno veramente male”.

E allora come si può favorire l’inclusione attraverso il linguaggio? Risponde Trapanese, fondatore di “A ruota libera onlus”, associazione che si occupa di progetti legati alla disabilità: “C’è tanta ignoranza, ma in senso positivo perché c’è proprio chi ignora, chi non conosce l’altro – ha detto –Per questo abbiamo sempre più bisogno di creare eventi come questo e come Capability, che abbiamo organizzato a Napoli proprio in questi giorni. Noi non conosciamo le nostre diversità, e proprio per questo dovremmo parlarne di più. Dovremmo anche eliminare la parola ‘normalità’, perché alla fine, chi di noi è normale?”.