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Una fuoriuscita di petrolio nel villaggio di pescatori di Kegbara-Dere, nello Stato di Rivers, sul Delta del Niger. Nel 2016 la Shell ha pagato 80 milioni di dollari per la fuoriuscita
La scorsa settimana, a Londra, ha preso il via un processo storico che vede opposte due comunità di etnia Ogoni che vivono nel delta del Niger e la multinazionale petrolifera britannica Shell. Circa cinquantamila persone hanno avuto il coraggio di chiedere che la società venga formalmente ritenuta responsabile di tutti i guasti ambientali provocati dall’inquinamento del delta tra il 1989 e il 2020 a causa degli sversamenti di petrolio.
Per comprendere bene i fatti, è utile ricordare che la Nigeria è il maggior produttore di greggio dell’Africa e che dagli anni Cinquanta l’intera area del delta è ostaggio del profitto legato all’oro nero. Shell è sbarcata qui nel 1958 e, secondo quanto ricostruito dalle Nazioni Unite, da allora si sono verificati più di settemila incidenti, per un totale di tredici milioni di barili di greggio finiti nell'ambiente. Un disastro silenzioso, ma dalle dimensioni inimmaginabili. Gli effetti degli sversamenti sono sotto gli occhi di tutti e hanno fatto entrare il territorio nella triste classifica delle aree più inquinate al mondo. Tra gli episodi più drammatici si ricordano quelli del 2008 e del 2009 nell’area di Bodo, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo.
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Acqua cancerogena
Se vi state chiedendo quali siano gli impatti sulla salute umana, oltre che sull’ambiente, preparatevi a una stretta allo stomaco: l’acqua potabile contiene sostanze cancerogene fino a novecento volte superiori ai limiti prescritti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Non solo: nell’aria sono state rilevate concentrazioni significative di benzene. Secondo l’Oms, per decontaminare l’area servirebbero dai venticinque ai trent’anni. Peccato che nessuno abbia mai realmente preso in considerazione l’idea di avviare un percorso serio in questa direzione.
Al contrario, nel 2015 Shell ha provato a chiudere la questione patteggiando una pena di 65 milioni di euro, cercando così di mettersi coscienza e affari in pace. E se qualche timido tentativo è stato fatto – come il progetto di bonifica dell’inquinamento da idrocarburi del 2016 – poco o nulla sembra essere cambiato. Peraltro, le comunità Ogoni denunciano che i lavori di bonifica sarebbero stati condotti in modo parziale e inefficace.
Distrutto un ecosistema
Una cosa è certa: agricoltura e pesca sono compromesse e con loro l’intera economia della zona. L’incidenza tumorale è spaventosa, la mortalità infantile è fuori controllo. Dal canto suo, Shell difende il proprio operato – e non potrebbe fare altrimenti – sostenendo che le opere di bonifica abbiano avuto una loro efficacia e che la complessità della situazione sia legata anche all’alto tasso di illegalità nell’area. Secondo la compagnia, infatti, molte delle perdite di petrolio sarebbero causate dalle bande criminali che manomettono gli oleodotti per rubare il greggio.
Nel frattempo, nel 2024 Shell ha venduto le proprie attività sulla terraferma nel delta a Renaissance Africa, un consorzio di realtà locali e internazionali, per 2,4 miliardi di euro. La compagnia sta smobilitando, puntando tutto sull’offshore, che a sua volta non è privo di rischi. Ora non resta che seguire gli sviluppi del processo, con la speranza che per le comunità Ogoni arrivi finalmente il momento della giustizia e che possa prendere il via un vero percorso di decontaminazione. Un processo che, pur avendo ricadute solo nel lungo periodo, rappresenterebbe almeno un faro di speranza. Ne riparleremo.