Il Festival di Sanremo ci ha insegnato come (non) parlare di disabilità nel 2025

Come il linguaggio inclusivo cambia la rappresentazione della disabilità. Dopo i momenti controversi sul palco, si riapre il dibattito su rispetto e diritti di chi vive con fragilità

di CATERINA CECCUTI
18 febbraio 2025
Gli attori del Teatro Patologico sul palco di Sanremo 2025

Gli attori del Teatro Patologico sul palco di Sanremo 2025

È bastata un’edizione di Sanremo per riportare in primo piano il tema dell’uso corretto delle parole nei confronti delle persone con disabilità. Da un lato, momenti d’intrattenimento che avrebbero dovuto celebrare il talento di individui straordinari hanno finito per ribadire una narrazione fatta di eroismo o pietismo, con presentazioni paternalistiche o indugi su immagini stereotipate. Dall’altro, una valanga di reazioni critiche, seguita alle poche apparizioni di ospiti “fragili”, definite con termini approssimativi e con quell’intento di “insegnare qualcosa” al grande pubblico.

Così, mentre sui social c’era chi si indignava, invitando a sostituire espressioni come “esempio di coraggio” o “malato di…” con formule rispettose che riconoscano il valore intrinseco di ogni persona, c’era anche chi difendeva con convinzione l’idea che la vera rivoluzione avvenga agendo sul contesto sociale e non solo sulle parole.

È proprio dal coinvolgimento di attori con disabilità intellettiva o di persone con malattie gravi – posti come se la loro condizione fosse un momento di intrattenimento o un invito a relativizzare i problemi del pubblico — che ha preso fuoco la discussione. Post e interventi di figure note come Jacopo Melio, Valentina Tomirotti o Lisa Noja hanno messo in guardia dal rischio di ridurre la disabilità a una parentesi consolatoria, che permette a chi guarda di sentirsi migliore o più fortunato. Contestazioni, queste, che hanno acceso la riflessione sull’uso di linguaggi pietistici o di narrazioni che, anziché avvicinare la comprensione delle diversità, rischiano di alzare barriere ancora più solide.

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Viene spontaneo chiedersi se davvero servisse lo spunto di un festival televisivo per discutere della rappresentazione della disabilità. Qualcuno ha sottolineato come ogni anno il meccanismo si ripeta: perché per alcuni basta dare qualche minuto di visibilità – incuranti di come questo avvenga – mentre per altri è inaccettabile veder replicati errori lessicali e gesti che infantilizzano?

Ogni scelta narrativa riflette una cultura che, a volte, è rimasta ferma agli anni Ottanta, come ricordano i critici del nome “Teatro Patologico” o chi evidenzia che le normative stesse in passato usavano il termine “handicappato”. Oggi più che mai, però, il richiamo è a un cambio di paradigma: non basta rispolverare il vocabolario con parole più morbide, se poi non si abbattono le barriere materiali e mentali. Né è sufficiente proclamarsi attenti e aggiornati per nascondere la mancanza di strutture e politiche inclusive.

Tempo fa, proprio sulle pagine di Luce, abbiamo proposto un articolo dedicato alle “Linee guida per il linguaggio inclusivo”, pubblicate da Fondazione Diversity, nelle quali vengono offerte indicazioni preziose per capire quali termini usare quando si parla di etnia, religione, disabilità o identità di genere.

Il cuore del documento è la consapevolezza che non si tratti di “politicamente corretto”, bensì di rispetto: ogni parola sbagliata o “caricata” di retaggi paternalistici, infatti, alimenta stereotipi e discriminazioni, tanto quanto l’omissione di diritti e l’assenza di adeguamenti strutturali. Dire “persona sorda” anziché “non udente”, o “persona con disabilità” anziché “diversamente abile”, corrisponde a un riconoscimento identitario che ha un impatto tangibile sull’autopercezione e sul modo in cui la società tratta questi individui.

Ciò che resta, alla fine, è il richiamo a responsabilità condivise: all’importanza di scorgere nell’altro non un “esempio di vita” o un “caso umano”, ma una persona che chiede pari opportunità, linguaggio rispettoso e accessibilità concreta. Ogni parola è un’azione, ricorda Fondazione Diversity, e da come scegliamo di parlare possiamo rendere la società più inclusiva o più discriminante. Forse il Festival non sarà mai l’arena perfetta, ma se la sua risonanza mediatica riesce almeno a spingere tutti a una riflessione più onesta e responsabile, il dibattito post-Sanremo avrà centrato un primo traguardo: imparare che il rispetto non è mai un accessorio di scena, ma l’elemento fondante di una cittadinanza autentica.