Ogni anno in Italia tremila persone muoiono in incidenti stradali, ma non è sempre colpa di chi guida. La battaglia di AdessoBasta

Tra meno di un mese prima udienza di un processo contro Anas, l’obiettivo è quello di ribaltare la narrazione e responsabilizzare chi costruisce le strade, affinché siano più sicure

di MICHELA LODDO
3 febbraio 2025
Giovanni Pintor sul palco del NEPO, l'evento annuale organizzato dai ragazzi di AdessoBasta

Giovanni Pintor sul palco del NEPO, l'evento annuale organizzato dai ragazzi di AdessoBasta

“Ho una cosa veramente importante da dirvi e ho bisogno di tutto il vostro supporto”. Inizia così il video appello di Giovanni Pintor lanciato sulle pagine social di AdessoBasta, associazione di cui il giovane sardo è fondatore. A un mese dall’incidente che ha visto coinvolti i suoi fratelli Matteo e Francesco in uno scontro mortale nel 2017, Giovanni ha fatto della sua rabbia una forza motrice che gli ha consentito di avviare un progetto concreto, volto a sensibilizzare la comunità sarda, e non solo, sul tema della sicurezza stradale.

Lo abbiamo intervistato per farci raccontare con quali obiettivi nasce il progetto e per capire perché l’udienza del processo civile, prevista per il 4 marzo, è così importante.

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L'elisoccorso per un incidente stradale

La nascita di AdessoBasta è legata a un’esperienza per te molto personale. Ti va di parlarcene e di spiegarci com’è nata l’idea?

“Il giorno di Natale del 2017 io andavo a Pattada (Sassari), il paesino di mia madre, per il pranzo di famiglia, come facevo ogni anno. Ero seduto nel sedile del passeggero e con me c’erano mio cugino Alessandro (1994) che guidava, e i miei fratelli, Matteo (2001) e Francesco (1994), che erano seduti dietro. Al km 64 della strada statale sarda 129 mio cugino ha perso il controllo dell’auto che ha sbandato andando a sbattere contro il guardrail della corsia opposta. Un incidente banalissimo: non stavamo correndo ed eravamo sobri; quindi, il tema del comportamento si elimina. Voltandomi però mi sono accorto che il guardrail aveva trapassato la parte posteriore della macchina, il cui impatto è stato fatale per i miei fratelli. Quel guardrail, che avrebbe dovuto svolgere il lavoro per cui è stato pensato, ovvero attutire il colpo, aveva ucciso. Mio cugino, che è sopravvissuto, ha sbattuto la testa al volante ed è finito in coma. Mi ricordo tutte le sensazioni, mi ricordo ogni cosa: i miei fratelli erano i miei migliori amici e quel giorno ho letteralmente perso tutto. Quindi, a parte incanalare la mia rabbia in modo non nocivo, ho cercato di capire per quale motivo, se andavamo piano ed eravamo sobri (anch’io vittima della narrativa per cui è sempre colpa di chi guida), i miei fratelli sono morti e mio cugino è comunque rimasto vittima di questo incidente, anche se in un’altra forma. Studiando la dinamica ci ho messo poco a capire che quella era una strada già pericolosa: in quello stesso anno si erano verificati altri due incidenti mortali con modalità molto simili e c’era addirittura stata un’interrogazione regionale in merito a quella strada. Quella curva era stata ribatezzata dagli abitanti del paese adiacente “la curva della morte”: in termini tecnici un black spot, ovvero un segmento di spazio stradale in cui c’è un’alta densità di incidenti, un po’ innaturale rispetto agli altri spazi. Questo significa che lo sapevano tutti: se lo sapevano gli abitanti dei paesi accanto, lo sapevano anche gli enti gestori di quella strada. A quel punto ho unito la mia comitiva di amici e amiche con quelle dei miei fratelli e ho pensato di fare qualcosa di bello per loro, cercando contemporaneamente di sensibilizzare su un problema gestionale che esiste ed è evidente, e non può essere attribuibile esclusivamente al comportamento dei singoli individui”.

Che obiettivi vi siete posti come associazione?

“Ci tengo sempre a specificare che quella che portiamo avanti non è una guerra contro Anas: in Italia perdiamo 3.000 persone a causa di incidenti stradali, circa un centinaio solo in Sardegna; la nostra vuole essere piuttosto una responsabilizzazione del gestore. Nel nostro Paese però, non esiste ancora questa sensibilità, quindi noi cerchiamo di creare una contro-narrativa: dovremmo vederlo come un sistema di responsabilità condivise, perché se si attribuiscono le responsabilità solo all’utente si rischia di deresponsabilizzare chi costruisce le strade. In una crisi che ammazza 3.000 persone all’anno vogliamo dire veramente che è sempre colpa di chi usa il telefonino? Sicuramente qualcuno muore perché usa il telefonino, o perché si mette alla guida dopo aver bevuto, ma guardare solo a questo mi sembra una presa in giro. Informandomi ho capito che dietro questa narrativa c’è in realtà una scelta consapevole, anche comunicativa, probabilmente dettata dal risparmio. In realtà pensare al risparmio è un’assurdità, perché diversi casi economici dimostrano che se tu Stato spendi oggi in infrastrutture sicure, domani non spendi in costi sanitari: un incidente mortale costa 1.600.000 euro alla comunità di costi sociali, e noi perdiamo 3.000 persone all’anno; si tratta dell’1% del PIL speso in incidenti stradali. Se quell’1% venisse investito in infrastrutture i costi sanitari non sarebbero così elevati, e anche gli ospedali verrebbero alleggeriti. Siccome il tema della sicurezza stradale è noioso un po’ per tutti, ho pensato che dovevamo rendere il nostro contributo alla causa divertente. Così ho inventato un format, che prevede l’organizzazione di eventi, concerti e tornei sportivi, a cui abbiamo deciso di dare il nome di NEPO. Questa espressione, dal sardo népòde (nipote), è un modo fraterno che usiamo a Nuoro per chiamarci tra amiche e amici, e lo abbiamo scelto per promuovere il messaggio che nella battaglia per una Sardegna più sicura ed efficiente, siamo tutti nepo. Il primo concerto ha avuto un successo enorme e abbiamo iniziato a pensare che la gente credesse davvero nel nostro lavoro. La comunità sarda è stufa della ricorsività di questi episodi, ma nessuno fa niente se non continuare a dare la colpa dei sinistri stradali ai singoli individui”.

A proposito di questo. Voi siete un gruppo di giovani che vi battete per dare un contributo utile al territorio. Il resto della comunità vi supporta o avvertite che sia una sfida che portate avanti da soli?

“Devo dire che la narrazione dello scontro generazionale qui cade. C’è una sinergia incredibile tra tutte le fasce d’età. Le nostre più grandi supporter sono le persone adulte, che sono entusiaste di collaborare e anche di divertirsi con noi, le prime a condividere i nostri progetti e le prime che hanno capito che si tratta di un discorso complesso; che ovviamente noi non vogliamo incitare la gente a bere e guidare, ma attirare l’attenzione sul fatto che ci sono degli organi competenti, pagati per farci vivere meglio, che si deresponsabilizzano completamente se si continua a portare avanti la narrativa secondo cui il colpevole è sempre chi guida. Che tra l’altro è una fesseria: sarebbe come credere che gli esseri umani siano infallibili. È una fesseria perché ci sono anche casi particolari. Mio cugino, per esempio, soffre della Sindrome di Brugada, una malattia genetica del cuore che può provocare l’insorgere di infarti o perdite di coscienza senza che il sistema psicofisico dia alcun segnale. Quando c’è stato il processo penale d’ufficio per omicidio stradale, infatti, lui è stato prosciolto, perché non era nelle sue facoltà controllare il veicolo. Quindi la domanda diventa: ma in tutti quei casi in cui un errore è inevitabile, come nel caso di mio cugino, e l’infrastruttura non perdona questi errori inevitabili e addirittura uccide, chi ne risponde? Per adesso nessuno, ma noi stiamo cercando di andare a processo per dire che qualcuno, in uno Stato civile, dovrà necessariamente risponderne”.

Ma su quella strada, dal 2017 a oggi, si è mai intervenuti?

“Sì, ma solo grazie a noi, che abbiamo insistito per dei cambiamenti concreti. Il primo anno del progetto, in pochi giorni, abbiamo raccolto 15.000 firme e le abbiamo presentate, con la nostra pagina social e il nostro evento abbiamo attirato l’attenzione anche dei ‘grandi’: sul nostro palco sono saliti anche politici di spessore, che hanno spesso strumentalizzato la causa per fini elettorali; noi eravamo consapevoli che sarebbe successo, ma è stato utile perché alla fine siamo stati ascoltati. Il processo di manutenzione della strada si è poi bloccato per un anno a causa della cosiddetta VIA (Valutazione di Impatto Ambientale), che prevedeva un intervento in un tratto di strada corrispondente a un kilometro: un anno per un kilometro. Noi abbiamo risposto a quest’interruzione con una mostra collettiva itinerante, che abbiamo chiamato VIS (Valutazione Impatto Sociale): abbiamo scelto di esporre una macchina incidentata che richiamasse le vittime della strada, e, con il supporto e la collaborazione degli artisti locali, siamo riusciti a superare anche quello scoglio. Oggi, dopo 7 anni, la strada è pronta: ma ci sono voluti 7 anni solo per manutenere una curva”.

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Un incidente stradale

Il processo civile, a cui AdessoBasta prenderà parte, come si svolgerà?

“Quello del 4 marzo sarà una specie di giorno del giudizio (cito Salvatore Satta non a caso). Mio cugino Alessandro andrà a processo contro Anas S.p.A., l’ente gestore di quella strada, per due motivi: per un risarcimento, a causa dei danni provocatigli dall’incidente, e per la richiesta di un giudice a un facere, ovvero un giudice che imponga ad Anas di sistemare tutti i guardrail della circoscrizione di sua competenza, in questo caso del tribunale di Nuoro. Noi di AdessoBasta, come associazione, parteciperemo al processo grazie all’articolo 105 del Codice di Procedura Civile, che ci permette di entrarne a far parte con intervento adesivo. L’ideale sarebbe che il giudice accettasse l’adesione e la nostra visione delle cose, il che non è facile, perché si tratta sempre di andare contro Anas, che ha le spalle grosse: sarà un Davide contro Golia, ma spero vivamente che capiscano che potrebbe essere un’opportunità per tutti, non una guerra”.

Quali sono le vostre richieste?

“L’obiettivo sarebbe semplicemente responsabilizzare l’ente gestore della strada, il che è un ossimoro, perché sarebbe condannarli a svolgere il proprio lavoro. Mio cugino ha ancora la Sindrome di Brugada; se le cose non cambiano cosa dobbiamo fare? Dovrebbero morire tutti quelli che vengono colpiti da un infarto o che si addormentano mentre guidano? O che commettono una serie di errori non consci? Per me non dovrebbero morire neanche quelli che commettono errori in modo conscio: se uno sbaglia, a prescindere non merita di perdere la vita. Solo che questo concetto non sembra essere recepito da tutti, perché le domande che la gente continua a porsi sono sempre ‘Ma era ubriaco? Ma correva?’ come se una risposta affermativa cambiasse la gravità del problema. Ipotizziamo che il giorno del crollo del ponte Morandi a Genova tutti corressero e tutti fossero ubriachi; il ponte è crollato comunque, quindi è colpa loro? Questo discorso a livello nazionale è davvero difficile da accettare, eppure è un discorso logico. Nei paesi del Nord Europa che hanno deciso di prendere sul serio il problema della sicurezza stradale, considerandola una crisi sistemica, viene applicata una filosofia che prende il nome di vision zero. Alla base di questo approccio c’è la convinzione che gli esseri umani sono creature fallibili, che commettono errori; che questi siano inconsci o consci, fanno parte della natura umana, perché siamo esseri imperfetti. Sembra che il sistema stradale di oggi, in stati come l’Italia, sia per esseri umani perfetti: ti dicono ‘se vai piano non muori, se non bevi non muori’, ma se ho un infarto e muoio di chi è la colpa? Nessuno se lo chiede. Svanisce tutto in una nebbia, che ricade però sulla pelle di 3.000 persone all’anno; mantenendo questa soglia nel giro di dieci anni morirebbero 30.000 persone: è come se Nuoro svanisse ogni 10 anni. Per questo motivo, se il giudice accogliesse la nostra richiesta, si creerebbe un precedente storico importante e si responsabilizzerebbe finalmente il gestore. A quel punto, in uno Stato in cui la scatola è fatta bene, potremmo puntare sull’educazione al comportamento”.

Negli ultimi anni avete ricevuto un forte sostegno dalla comunità, sia online che offline. Credi che fare rete possa davvero fare la differenza ed essere la chiave per un cambiamento duraturo?

“Ti do una risposta semplice a una domanda difficile: sì, e noi lo stiamo dimostrando”.