
I bambini non riconosciuti alla nascita sono passati dai 409 del 2010 ai 169 del 2022
Questa è la storia di due donne coraggiose: la prima nel 1966 ha dato alla luce una bimba affidandola alle cure di medici e ostetriche perché lei non avrebbe potuto occuparsene; la seconda è quella bimba che, diventata adulta, ha affrontato il suo passato con il cuore e con la testa, rendendolo prezioso nel presente e per il futuro. Ma è anche la storia del conflitto tra due diritti, entrambi sacrosanti: quello all’oblio delle donne che partoriscono in anonimato e quello dei figli adottivi di rispondere alla inevitabile domanda “da dove vengo?”.
La scelta di Claudia Roffino
La prima donna della storia non la conosciamo, la seconda sì: è Claudia Roffino, torinese, 59 anni, insegnante di latino e greco. A tre mesi è stata adottata da una coppia - due pionieri per quei tempi (siamo nel 1966, quando non esisteva neanche la legge sulle adozioni) – che non desiderava altro che avere un figlio. La piccola era nata all’ospedale Maria Vittoria: non riconosciuta dalla donna che l’aveva partorita, era stata affidata all’Ipim, l’Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità, una delle strutture che si occupavano non solo dei bimbi senza famiglia ma anche delle ragazze madri.
Dall’istituto a una casa vera
“Quando sono arrivati Danda e Nuccio a prendermi, la suora che mi accudiva ha messo tra le loro braccia un fagottino di tre mesi, e ce ne siamo tornati a casa in tre”, racconta Claudia Roffino. Allora era tutto più veloce: se eri disponibile all’adozione, in tempi brevi diventavi genitore, senza verifiche preliminari, colloqui, test o selezioni. I bambini adottabili erano tantissimi, il rapporto era di circa 20 coppie per 300 bambini (solo nell’Ipim di Torino ce n’erano 350, dagli 0 ai 3 anni): oggi la situazione è ribaltata del tutto (per ogni bambino ci sono circa 30-40 coppie in attesa!). Insomma, un altro mondo, in cui una coppia senza figli era spesso additata come diversa e monca, non degna di essere considerata famiglia.

Il tempo delle domande
La vita di Claudia racchiude tutti gli ingredienti tipici di ogni famiglia adottiva che si rispetti: amore incondizionato, giochi, viaggi, libri, incontri, amici, amore, ma anche incomprensioni, rabbia, interrogativi pesanti come macigni. E poi i pregiudizi che, ora come allora purtroppo, generano domande insulse che vanno a nutrire un vero e proprio “stupidario”, a cui molti attingono: “ma come sei alta, da chi hai preso?” “ma tu la chiami mamma?”, “non vorresti conoscere la tua mamma vera?”
Eppure non sono queste le domande che bruciano di più. I quesiti dolorosi sono quelli che vengono da dentro e che, a partire dall’adolescenza, si sono affacciati alla mente e al cuore di Claudia. L’interrogativo era sempre lo stesso, anche se declinato in varie forme: perché non mi hanno voluta? Che cosa avevo di sbagliato? Dove sarà mia madre ora?
Alla ricerca di una risposta
“Diventata adulta, le domande interiori mi hanno portata a iniziare un percorso di ricerca”, prosegue Roffino “che mi ha condotta a parlare con medici, ostetriche, assistenti sociali, psicologi, politici, in un lungo viaggio tra istituti, ospedali, associazioni del nord Italia”. Un viaggio per capire: sia il senso di una legge che c’è e va rispettata sia il valore di una scelta difficile, che va compresa e accettata. Nel suo peregrinare tra documenti e addetti ai lavori Claudia si è imbattuta in mille storie, quasi tutte molto dolorose, parlando con ginecologi e ginecologhe che assistono le madri al momento del parto anonimo, con psicologi che stanno loro accanto al momento di una scelta così dura, con le donne stesse – poche – che hanno voluto raccontarle come sono giunte a tale decisione.
“La mia lunga ricerca mi ha aiutato a trovare le risposte che cercavo”, dice Claudia. “Ho iniziato a vedere la mia vita e le mie origini con uno sguardo nuovo, non più giudicante. A essere meno arrabbiata e a farmi nuove domande: “che cosa è accaduto a questa donna per arrivare a tanto? Cosa le sarà successo?”. Sono riuscita a percepire la sua sofferenza, le sue fatiche, il suo dolore. E a immaginare lo strazio che comporta la scelta di lasciare un figlio appena nato”.
Perché è “lasciare” la parola giusta, non “abbandonare”. “Si abbandona qualcuno a cui non si tiene: io invece sono stata lasciata alle cure di chi era in grado di occuparsi di me”, spiega Roffino. “Mia madre mi ha tenuta con sé, portandomi in pancia per nove mesi, proteggendomi e amandomi come solo una madre sa fare. Non mi ha rifiutata, ma mi ha messa al mondo facendomi il dono più grande, la vita. L’abbandonata invece era lei, che non ha avuto nessuno accanto che potesse aiutarla in questo momento così drammatico”.
La pace con se stessa
Quando ha scoperto che avrebbe potuto risalire alla cartella con i dati relativi alla sua nascita, Claudia è tornata all’Ipim e si è fatta consegnare quelle carte. Così è venuta a sapere che la sua madre biologica era piemontese e al momento del parto aveva 29 anni. Ed è tornata a casa con una fotocopia della sua foto appena nata.
“Non avevo bisogno d’altro, quello che sapevo mi bastava”, racconta Claudia. “Avevo fatto pace con me stessa e con la donna che mi aveva generato, arrivando a volerle bene, comprendendo la sua scelta e rispettandola. E ho deciso di smettere di cercare”.

Un libro per le donne
Il materiale raccolto negli anni della sua indagine ha dato un frutto prezioso per la comunità, sfociando nel libro Una vita in dono, scritto con Barbara Di Clemente (99 Edizioni): in queste pagine si narra da una parte la storia di Claudia, che ripercorre le tappe di una esistenza felice, dall’altra quella di Donna, la sua madre biologica, mai conosciuta e solo immaginata. Il nome di fantasia non è casuale, ma vuole rappresentare tutte le donne che nel mondo sono costrette a scegliere il parto anonimo. È per loro che Claudia si batte da anni, per il rispetto della loro scelta e per una società migliore, che le protegga e le tuteli nel tempo.
Che cosa dice la legge oggi
“Il parto anonimo protegge i diritti delle donne e dei bambini”, spiega Joëlle Long, docente di Diritto di famiglia e minorile al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. “Prima di tutto le madri possono proteggere la propria salute, partorendo in condizioni di sicurezza in una struttura ospedaliera: il parto anonimo diventa così una valida alternativa, per la donna che ritenga di non poter crescere il figlio generato, da un lato all’aborto, dall’altro al fenomeno dell’abbandono nei “cassonetti della spazzatura”“.
Inoltre viene loro garantita la tutela alla riservatezza: le partorienti possono rifiutare la genitorialità sociale, senza che altre persone ne vengano a conoscenza.
“Ma soprattutto il parto anonimo tutela le bambine e i bambini, facendoli nascere in un luogo sicuro e rendendoli adottabili in tempi brevi, con una procedura semplificata e più rapida”, aggiunge l’esperta.
Di quali leggi stiamo parlando? Dell’art. 30 DPR 396 del 2000, che sancisce il diritto di tutte le partorienti – sposate o non sposate, italiane o straniere, anche in posizione irregolare nel nostro Paese – a mantenere il segreto sulla propria identità verso tutti, compreso il figlio biologico. E dell’art. 28 della legge n.184 del 1983 che “esclude che l’adottato adulto figlio di partoriente anonima possa avere accesso alle informazioni sulle sue origini familiari”.
Anonimato a rischio
La tutela dell’anonimato non è tuttavia assoluta. La Corte Costituzionale, con la sentenza n.278 del 2013, ha cambiato le carte in tavola: “La pronuncia, infatti”, aggiunge Joëlle Long “stabilisce che, qualora risulti che la madre abbia scelto il parto anonimo, il giudice – su richiesta del figlio – debba rintracciare la donna e chiederle se intende mantenere il segreto sulla sua identità”. Il termine giuridico è “interpello”: la donna viene cercata, trovata e le viene posta la fatidica domanda (conferma la sua volontà di restare anonima oppure no?). I dati mostrano che nel 97% dei casi el donne interpellate rispondono confermando la volontà di restare anonime.
Per loro è stata una scelta pesantissima quella di allora, quando sono state costrette a lasciare il proprio bimbo alle cure altrui dicendo a se stesse “no, non sarò la sua mamma”, ma non è meno difficile a distanza di anni dover dire un altro “no” alla richiesta di quel bimbo ormai uomo, che non hanno mai smesso di pensare né di amare, e le vuole incontrare.
“È a loro che dobbiamo pensare, rispettando la decisione presa al momento del parto”, commenta Roffino. “Invece ancora oggi ci si concentra solo sui desideri dei figli, ignorando del tutto i diritti delle madri”.
Un diritto a senso unico
Non scordiamo inoltre che il diritto all’interpello funziona a senso unico: infatti la madre biologica non può in nessun caso, a un certo punto della sua vita, mettersi in cerca del figlio partorito in anonimato. Non riconoscendolo perde l’esercizio di qualunque diritto nei suoi confronti. Per sempre.
Perché dunque il cambio di rotta della sentenza del 2013? “È un’innovazione giurisprudenziale”, risponde Long “che rappresenta un bilanciamento tra il diritto all’anonimato della partoriente – di cui è ribadito il valore sociale e legale – e quello del figlio di conoscere le proprie origini come elemento della sua identità personale”. L’interpello però comporta una profonda intrusione nella vita privata della donna, rischiando di minare equilibri costruiti nel tempo, riaprendo ferite, magari esponendo lei stessa a verità non rivelate alla famiglia attuale.
Ci si muove su un terreno sdrucciolevole: è una linea sottile quella che separa un desiderio naturale (sapere da dove veniamo) e un diritto legittimo (restare anonima).
Madre e mamma: sono la stessa cosa?
Desiderio e diritto infatti non sono sinonimi. Così come non lo sono madre e mamma. Se madre è colei che genera, mamma è colei che accudisce, sostiene, educa, ama. Non è scontato che la prima coincida sempre con la seconda. Ed è proprio questo che rende genitori: non il sangue, ma l’amore. “Un concetto tutt’altro che recepito nella nostra società – commenta Claudia Roffino – in cui il legame carnale è ancora considerato privilegiato. Quando sono stata adottata io, nel ’66, non esisteva neanche una legge ad hoc, ma credo che a tutt’oggi manchi una vera cultura dell’adozione, riguardo alla quale i pregiudizi si sprecano”.
Numeri allarmanti
La sentenza del 2103 ha indotto una inversione di tendenza, e i numeri parlano chiaro: le cifre dei parti in anonimato sono in calo. Secondo i dati forniti dall’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie (Anfaa) i bambini non riconosciuti alla nascita sono passati dai 409 del 2010 ai 169 del 2022. Una delle ragioni potrebbe essere proprio il fatto che il diritto all’oblio della madre biologica ora non è più garantito. La consapevolezza di poter essere comunque cercate e rintracciate potrebbe indurre molte donne a fare altre scelte, percorrendo strade diverse, spesso disperate. Alcune portano avanti la gravidanza e partoriscono in contesti non adatti, altre optano per l’aborto, altre ancora si liberano del neonato, che spesso non sopravvive.
“Questi numeri sono allarmanti e fanno riflettere”, commenta Claudia Roffino. “Ma c’è un numero ancora più sconcertante che non compare nelle statistiche: è quello che chiamo “zero pieno”. Sono i bambini mai trovati, non perché non venuti al mondo, ma perché uccisi o abbandonati, se non addirittura venduti, prima che qualcuno potesse prendersene cura”. Quanti sono? Chi parla di loro? Chi se ne occupa? Domande ancora senza risposta.
Quando si nasce si è in due
Ogni fatto di cronaca che riguarda il ritrovamento di un neonato apre interrogativi che scuotono l’opinione pubblica. Ma le reazioni sono sempre le stesse: com’è potuto accadere? Con che coraggio si può fare una cosa simile? Come sta il bimbo adesso?
Nessuno si chiede: dov’è la madre ora? Perché ha dovuto fare questa scelta? Che ne sarà di lei?
Per i bambini non riconosciuti alla nascita si è fatto (e si fa) il possibile: nascono in sicurezza, sono protetti e curati da personale specializzato, vengono subito presi in carico dai servizi sociali del territorio e in poco tempo trovano una famiglia pronta ad accoglierli. Nel frattempo, per non tenerli in ospedale, vengono spesso affidati a una famiglia che se ne occupi temporaneamente (la cosiddetta “famiglia cicogna”).
Madri lasciate sole
E per le loro madri? “Per le donne che partoriscono in anonimato non si è fatto abbastanza”, risponde Roffino. “Prima del parto ci vorrebbe più informazione, a partire dalla scuola, in cui si insegna educazione sessuale, parlando di anticoncezionali, concepimento, aborto, maternità, ma mai della possibilità del parto anonimo, che è ancora un tabù”.
E manca anche il supporto a queste madri dopo il parto, perché da loro la società si aspetta ciò che non sono in grado di dare.

“Le culle termiche non sono la soluzione”
Per loro si batte da tempo anche l’Anfaa, che di recente ha inviato una lettera aperta al ministero della Salute, in cui si richiede una informazione più completa e diffusa sul parto in anonimato e una maggiore garanzia di segretezza per le partorienti in difficoltà. “Non serve indignarsi”, si legge nel documento. “Pochi pensano alla solitudine in cui troppo spesso le partorienti vengono lasciate in momenti così drammatici della loro vita e al dolore che accompagna un gesto così disperato”.
E non manca il riferimento alle culle termiche, anch’esse al centro del dibattitto, in quanto non garantiscono la sicurezza del parto, che resta un momento di alto rischio per la salute della donna e del bambino. “Inoltre le culle, a differenza dei parti in anonimato in ospedale”, prosegue la lettera dell’Anfaa “non offrono la possibilità di raccogliere i dati sanitari della partoriente, relativi ad esempio a possibili malattie geneticamente trasmissibili o altro, la cui conoscenza potrebbe rivelarsi utile, in futuro, per il loro nato”.
Zero solidarietà femminile
“Dobbiamo capire che non tutte le donne sono pronte a fare le mamme, e non vanno incolpate per questo: c’è chi non se la sente, chi non può, chi non ce la fa”, dice Roffino. “È per queste donne che faccio sentire la mia voce, che vorrei non rimanesse una goccia nel mare. Il problema è che troppo spesso sono proprio le donne a non essere unite e solidali tra loro. Ed è solo dal mondo femminile che può partire il segnale per cambiare le cose e il modo di pensare comune”.
“È una responsabilità di tutti”, conclude Claudia Roffino “quella di occuparci di queste madri, non abbandonandole, e quella di ripensare all’adozione in tutti i suoi aspetti, nell’interesse dei bambini che stanno nascendo oggi e che nasceranno in futuro, che potrebbero – venendo meno la certezza dell’anonimato – non avere le stesse possibilità che abbiamo avuto noi”.