
Made in Korea (Filippo Venturi). Nel 2016 il suo progetto fotografico è arrivato al secondo posto nella categoria Professionisti – Persone dei Sony World Photography Awards
"Dopo che mi sono tagliata i capelli tutti mi chiedevano perché l’avessi fatto e mi dicevano che stavo meglio prima, che ero più bella". Cindy, attivista femminista coreana del gruppo universitario Dongkuk Sirens, mi racconta di questo gesto che potrebbe sembrare molto semplice, come di un passaggio fondamentale per il suo attivismo: "All’inizio ho pensato di aver sbagliato, poi ho pensato che non volevo cambiare per gli altri. È stata un’esperienza importante, è stato un modo per vivere la mia vita", mi dice.
Gli standard di bellezza coreani: non solo estetica, ma capitale sociale

La pressione per essere belle, per aderire a standard di bellezza spesso irraggiungibili riguarda le donne di tutto il mondo, ma in Corea del Sud questa tendenza assume contorni particolarmente estremi. Il modello estetico femminile sudcoreano si basa su un ideale di magrezza estrema, pelle chiara, viso piccolo e simmetrico a forma di V, doppie palpebre, naso affilato e labbra carnose. Questi canoni sono veicolati dai media mainstream, dall’industria del K-Pop e dei K-Drama, oltre che dalle onnipresenti pubblicità di centri di chirurgia estetica e plastica. Anche nel mondo del lavoro, l’aspetto fisico gioca un ruolo cruciale: spesso la conformità a questi standard è una condizione necessaria per ottenere un impiego a contatto con il pubblico.
I dati: il 17% delle donne sudcoreane è sottopeso
Se guardiamo ai dati, è immediatamente chiaro l’impatto di questa pressione sociale: uno studio del 2019 ha rilevato che il 17% delle donne sudcoreane è sottopeso. Nel 2018, la Corea del Sud ha registrato il più alto numero di interventi di chirurgia plastica pro capite al mondo e, secondo un sondaggio del 2019, il 40% delle donne sudcoreane si è sottoposto a tali operazioni. Inoltre, il 60% dei datori di lavoro ha ammesso che l’aspetto fisico incide in modo significativo sui criteri di assunzione, con un impatto maggiore sulle donne rispetto agli uomini.
Si tratta di standard estetici che non riguardano solo la sfera individuale, ma definiscono anche lo status sociale delle donne, rientrando in una più ampia visione dell’autoaffermazione femminile. Secondo Sharon Heijin Lee, ricercatrice dell’Università del Michigan che si è occupata del tema, in un contesto neoliberista, il corpo diventa uno strumento di competizione sia nel mercato del lavoro che in quello matrimoniale, sostituendo il tradizionale ruolo della maternità come principale indicatore di femminilità. In questo scenario, la chirurgia estetica assume un significato diverso rispetto ai paesi occidentali. Se in Occidente è spesso vista come un mezzo per avvicinare l’aspetto esteriore a una presunta “bellezza interiore” o “vera bellezza”, in Corea del Sud è considerata un’opportunità per conformarsi a un modello estetico dominante e acquisire capitale sociale.
La risposta femminista: il movimento #EscapeTheCorset
In risposta a queste pressioni sociali opprimenti, nel 2017 nasce il movimento #EscapeTheCorset (#tal-corset), una forma di opposizione e rifiuto degli standard di bellezza che riguardano soprattutto le giovani donne. Il movimento si sviluppa come una pratica quotidiana delle giovani femministe: le partecipanti decidono di non indossare make-up o vestiti femminili, portano i capelli corti, evitano i prodotti di bellezza e rifiutano la depilazione. Si tratta di una protesta radicale in un contesto particolarmente ostile, dove la bellezza è spesso considerata un prerequisito per essere accettate nella società e nel mondo del lavoro.
L'idea di ribellarsi a questi canoni estetici nasce online, sui social media: il termine "corsetto" viene adottato per la prima volta nel 2015 sul forum femminista indipendente Megalia, dove le utenti discutono su quali pratiche possano essere comprese in questo concetto. Nel 2017 emergono le prime teorizzazioni sul rifiuto del "corsetto" e iniziano a circolare immagini di trucchi distrutti e capelli tagliati, simboli di emancipazione dal sistema patriarcale. Molte attiviste iniziano a questo punto a condividere sia sui forum che sui social media foto "before and after" per mostrare i risultati del rifiuto delle pratiche di bellezza convenzionali, accompagnate dall'hashtag #EscapeTheCorset.
Uno dei momenti simbolo del movimento è rappresentato dalla pubblicazione di un video della youtuber Lina Bae, famosa per i suoi contenuti dedicati al make-up. Nel 2018, Bae pubblica un video dal titolo "I'm Not Pretty", in cui rimuove il trucco mostrando il suo volto al naturale, mentre sullo schermo appaiono commenti negativi sul suo aspetto. Il video diventa virale, ma le critiche la costringono a disattivare la sezione commenti. In seguito Bea affermerà che sono stati i commenti delle ragazzine, che dicevano che guardando i suoi video avevano voglia di truccarsi, a darle la spinta finale per abbandonare il corsetto.
Nello stesso anno, il movimento esce dal mondo virtuale e si manifesta fisicamente nelle proteste che si tengono nelle strade di Seoul contro la pratica della molka (riprese segrete e non consensuali effettuate con spycam). Durante queste manifestazioni, alcune attiviste si rasano i capelli in pubblico, rendendo visibile la loro ribellione. Nello stesso anno, grazie ai social network come YouTube e Instagram, il movimento diventa virale, attirando l'attenzione dei media nazionali e internazionali.
I risultati e le conseguenze di "fuggire dal corsetto"
La viralità e la diffusione del movimento hanno prodotto cambiamenti concreti: tra il 2016 e il 2018, l'acquisto di cosmetici e prodotti di bellezza da parte delle donne coreane tra i 20 e i 30 anni è significativamente diminuito, mentre le spese per la chirurgia plastica, in precedenza in costante aumento, sono calate di 64,6 miliardi di won (circa 58,3 milioni di dollari). Nonostante il suo impatto, il movimento non è privo di controversie. Alcune femministe accusano l'#EscapeTheCorset di aver creato un nuovo tipo di "corsetto", imponendo l'idea che una vera femminista debba rifiutare per forza il trucco, i capelli lunghi e i vestiti femminili.

Inoltre, la società coreana, ancora permeata da sentimenti antifemministi, spesso etichetta le donne con i capelli corti come militanti femministe, rendendole bersagli di attacchi online e discriminazioni sociali: "Avere i capelli corti vuol dire automaticamente essere femminista, anche se è pieno di femministe che non hanno i capelli corti e donne con i capelli corti che non sono femministe. Penso che sia qualcosa che abbiamo interiorizzato, perché sono in qualche modo spaventata dal fatto di dire a tutti che sono femminista e non mi sento sicura ad esprimere il mio attivismo anche attraverso capelli corti e vestiti maschili", mi racconta Blessing Kim, attivista della KU Student Association for Women Rights, che al momento dell'intervista portava i capelli lunghi.
Seongwon Ihn, che fa parte della stessa associazione ma che ha deciso di aderire al movimento, testimonia che gli sguardi, nel momento in cui si decide di tagliare i capelli e rinunciare a un look più femminile, cambiano: "Mi è capitato di essere attaccata per il mio aspetto, per i capelli corti, soprattutto i ragazzi giovani ci fissano e ci guardano male". Ne vale la pena? "Il mio look fa parte del mio attivismo", conclude Seongwon.