Era ubriaca e con la porta semi aperta. Quindi
non si tratta di stupro, ma di "invito a osare". La Corte d’Appello di Torino, giovedì 7 luglio, ha assolto un ragazzo condannato in primo grado per violenza sessuale perché secondo i giudici, la ragazza, lasciando
la porta del bagno socchiusa, lo aveva "invitato a osare". Vittima colpevole, perché era “
sbronza e quindi non pienamente in sé”. C'è da aggiungere altro? La decisione è una di quelle che seccano le parole in gola, che lasciano talmente scioccat* che serve fermarsi, contare fino a 10 e poi esprimersi, canalizzando
la rabbia e l'incredulità provocate in un ragionamento che vada al di là del mero sfogo. Perché dimostra quanto ancora nel nostro Paese ci sia bisogno di lavorare, di discutere e quindi agire a contrasto della
violenza di genere, su quanto arretrata sia la cultura italiana sul tema, tanto da
considerare la vittima di stupro la vera responsabile e non l'uomo che l'ha violentata, che sarebbe invece stato tentato e non avrebbe resistito ai suoi istinti 'di maschio'.
In Italia spesso le vittime di violenza vengono colpevolizzate per aver provocato l'aggressore
I fatti
Partiamo dai fatti, intanto. Siamo nel
2019, a Torino: una ragazza
incontra un conoscente, con il quale in precedenza si era scambiata qualche bacio, e con lui si intrattiene
in un locale di via Garibaldi. Vuole spiegargli che per lei finisce lì, non vuole andare oltre o iniziare una storia. La donna deve andare in bagno e si fa accompagnare dal ragazzo, che conosce bene il posto perché ci ha lavorato. Lascia inavvertitamente la porta socchiusa.
Lui entra e la stupra. Scatta la denuncia,
in primo grado l'uomo viene
condannato. Ricorre in appello e qui viene
assolto.
La sentenza della Corte d'Appello
Secondo i giudici: "L'unico dato indicativo del
presunto abuso potrebbe essere considerato
la cerniera dei pantaloni rotta, ma l'uomo non ha negato di aver aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull'
esaltazione del momento la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura". L'esaltazione del momento e
lo stato psicofisico della ragazza "
alterata per un uso smodato di alcol (...)" avrebbero provocato "l'avvicinamento del giovane che la stava attendendo dietro la porta", riporta l'agenzia di stampa ANSA citando la sentenza. Un chiaro invito ad 'osare', da quanto viene riportato. La sentenza del tribunale torinese è stata
impugnata in Cassazione dal sostituto procuratore generale Nicoletta Quaglino. Ma, al di là del procedimento giudiziario che proseguirà quindi nell'iter processuale, ha già scatenato l'indignazione, la rabbia, il disgusto perfino di gran parte dell'opinione pubblica. E come darle torto?
"Sì vuol dire Sì, no vuol dire no"
La cultura dello stupro
Il caso è solo la punta dell'iceberg in mare magnum di vicende simili, che considerano la vittima di uno stupro consenziente perché "
indossava jeans attillati", "aveva un vestito troppo corto", "aveva
un trucco/una scollatura/lo sguardo provocante", oltre a gridare ingiustizia, di
vittimizzazione secondaria, di
colpevolizzazione della stuprata, della donna uccisa, nella peggiore delle ipotesi. È colpa sua. È colpa nostra. Di tutte noi che crediamo di essere libere e non lo siamo, che crediamo di poter uscire di notte e non possiamo, di vestirci come ci pare e non ci è concesso. Di amare e godere del
sesso consensuale, anche occasionale, ma non ci è permesso. Perché? Perché altrimenti, se veniamo stuprate, ce la siamo cercata. Il pregiudizio, la
cultura maschilista e paternalista vincono sul giudizio obiettivo dei fatti. Ancora. La sentenza di Torino è pericolosissima perché
impaurisce le donne, già preoccupate di essere colpevolizzate per la violenza subita. Così facendo si spingono le vittime a chiedersi: "
È stata colpa mia?", mentre per tutte coloro che non hanno mai provato sulla loro pelle un abuso scatta il terrore preventivo: "La prossima sarò io?
Succederà anche a me? Mi sono vestita troppo provocante o avrò fatto qualcosa che ha indotto un uomo a pensare che potrei starci?". Domande chiave che denunciano la presenza
ben radicata in Italia della cosiddetta "cultura dello stupro". Che criminalizza le donne per come si vestono e come si comportano, giustificando atti di violenza, di abuso, contro di loro come 'indotti', 'provocati' per qualcosa che hanno fatto o detto (o non detto). Allora
che senso ha denunciare? Quando si parla di cultura dello stupro, si parla anche di questo: della mentalità di chi ancora
avvalla l’idea che la donna se la sia cercata. Perché non ha chiuso la porta a chiave, invitando quindi l'uomo fuori a "osare". Perché l'uomo, in quanto tale, sarebbe una specie di bestia che non sa resistere agli istinti 'della carne',
non sa resistere all'impulso di accoppiarsi senza una chiara negazione di consenso dall'altra parte (ma anche quando questa c'è ma lui se ne frega!).