Qual è il limite tra libertà di espressione e offesa? Tra dato oggettivo e incitamento all’odio razziale? Sono queste le domande che scaturisce il caso Egonu-Vannacci, dopo che il giudice di Lucca ha deciso di far cadere le accuse di diffamazione che la campionessa di volley aveva mosso contro il generale, neo eletto in parlamento europeo con la Lega.
Al centro della contesa, le parole che Roberto Vannacci ha utilizzato nel suo libro, già ampiamente discusso, “Il mondo al contrario”, in riferimento a Egonu. La pallavolista viene tirata in ballo in quelle pagine come esempio random di un’italianità diversa da quella che l’autore intende, come simbolo di una società multietnica e multiculturale che poco piace allo scrivente che, dal canto suo, preferisce quella di Enea, Giulio Cesare, Romolo, Dante. E’ il loro sangue che scorre nelle vene di Vannacci, o almeno è ciò che gli piace credere. E’ a loro che fa riferimento quando parla di elementi cristallizzati della nostra cultura, evidentemente saltando le pagine di storia che raccontano della conquista araba del meridione o di quella normanna, che inevitabilmente hanno influenzato e contaminato già allora l’italianità vannacciana. Ma forse il sud è storia a sé.
Per il generale: “Anche se abbiamo seconde generazioni di italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale” (eppure in un fine settimana a Milano ho mangiato più sushi e udon che cotolette); e poi “anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri”. Anche qui, il generale deve aver saltato qualche pagina di storia dell’arte, quella bizantina ad esempio.
Ad ogni modo la frase, quella su Egonu, può essere “inopportuna”, ma non è offensiva o denigratoria secondo il giudice del tribunale di Lucca. La decisione di archiviare tutto ha ovviamente diviso in due l’opinione pubblica: da una parte chi sostiene il generale e la sua libertà di pensiero; dall’altra chi esprime grande solidarietà alla campionessa.
Se il primo non ha perso occasione per cantare vittoria; la seconda ha preferito rimanere in silenzio e condividere i vari messaggi di vicinanza. Tra questi, quello dei Subsonica che nel pubblicare un estratto della canzone “Pugno di sabbia” (che parla proprio degli italiani di seconda generazione) hanno scritto: “C’è una ragazza italiana forte e talentuosa che ha vinto tante sfide, insultata da un generale che continua a perdere la guerra quotidiana con la decenza. Oggi più che mai siamo contenti di avere scritto questa canzone”.
Torniamo quindi alla domanda iniziale: qual è il limite tra libertà di pensiero e offesa? Chi lo definisce? E’ lo stesso per la giurisprudenza e il vivere civile? Come si giudica una frase, apparentemente innocua, se rischia di insinuare sentimenti di ostilità e di avversione, in chi la legge e in chi la ascolta? A maggior ragione se inserita in un contesto che mira a sostenere una tesi specifica. Dove finisce la responsabilità di chi parla e dove inizia quella di chi interpreta?