Vera Gheno: “Parlano di ‘utero in affitto’ per manipolare l’opinione pubblica. La scelta delle parole è strategica”

Da una parte si sminuisce il potere del linguaggio quando esso mira all’inclusione e al rispetto, dall’altra si utilizza con precisione quando c'è da criminalizzare. La verità, come spiega la linguista, è che “la trasmissione del sapere ha bisogno delle parole”

di GIORGIO BOZZO -
22 ottobre 2024
Vera Gheno durante un incontro a Firenze

Vera Gheno

Vera Gheno è una linguista, saggista, podcaster, traduttrice e attivista italiana. Dopo una laurea in sociolinguistica conseguita nel 2002 presso l’Università degli Studi di Firenze e un dottorato di ricerca in linguistica concluso nel 2006 nello stesso ateneo, ha iniziato un brillante percorso professionale che l’ha portata a collaborare con l’Accademia della Crusca e con la casa editrice Zanichelli. Al momento è ricercatrice a tempo determinato di tipo A all’Università di Firenze.

Gheno è un’autrice prolifica, con all’attivo la pubblicazione di molti saggi e di molte traduzioni dall’ungherese, lingua appresa per linea materna. Il suo ultimo libro, uscito nell’aprile scorso per Einaudi, si intitola Grammamanti e vuole illuminare il lettore sul potere rivelatore e liberatorio delle parole, che – secondo la sinossi di presentazione sul sito dell’editore – qualora si instauri con esse “una vera e propria relazione amorosa, sana, libera e matura... ci permettono di vivere meglio e ci danno la possibilità di cambiare il mondo”.

Sabato 26 ottobre Vera Gheno sarà ospite dell’Oxfam Festival 2024, evento organizzato da Oxfam Italia, la locale rappresentanza dell’organizzazione internazionale no profit impegnata nella riduzione della povertà globale, attraverso la raccolta di aiuti umanitari e lo studio di progetti di sviluppo. La manifestazione si svolgerà a Firenze tra il 24 e il 26 e l’edizione di quest’anno ha per titolo Creiamo un futuro di eguaglianza.

L’intervista

Gheno, l’incontro a cui lei prenderà parte vuole tentare di rispondere a una domanda: “Il lavoro (al femminile) rende libere?” Nella sua esperienza di linguista e di attivista ritiene che il linguaggio possa dare un contributo efficace ad abbattere il gender gap?

"Come potrebbe essere altrimenti? È proprio grazie al linguaggio che approcciamo i problemi ed è grazie alle parole che utilizziamo che diamo loro la visibilità necessaria per risolverli".

Stiamo parlando di un contributo pratico o di fisime intellettualistiche come qualcuno ipotizza?

"Questa non è che un’ulteriore forma di benaltrismo, secondo l’adagio che “i problemi sono altri, non la lingua”, come se l’attenzione al linguaggio fosse fine a se stessa e non essenziale a rendere visibili i problemi. Invece è proprio questo uno dei principali ruoli della lingua. Qualche tempo fa, durante una discussione, un fisico nucleare mi ha detto: “Vabbè, noi abbiamo le formule, non abbiamo bisogno delle parole”. Gli ho risposto: “Quindi quando insegni fisica quantistica all’università schiaffi ai tuoi studenti un’espressione matematica sulla lavagna e te puoi andare in piscina? Tanto quello che c’è da sapere è lì, sulla lavagna”. È ovvio che non funziona così. La trasmissione del sapere, anche per una materia apparentemente lontana dalla lingua come la fisica, ha bisogno delle parole affinché il suo sapere diventi condivisibile. Questo è un po’ il senso del lavoro sulla lingua: non una semplice cartellinatura della realtà, ma un impegno di carattere epistemologico, che ti assicura le linee guida per comprendere la realtà e se la comprendi magari ti viene voglia di cambiarla”.

Quindi serve per sostenere un’evoluzione della sensibilità, un’evoluzione di carattere culturale a cui poi segue l’utilizzo di altri strumenti. Un problema come il gender gap, avvertito, riconosciuto anche grazie all’adeguatezza delle parole, poi si può aggredire e risolvere più pragmaticamente?

“Chiaro che sì. Inoltre, il lavoro sul linguaggio smaschera le false apparenze. Rispetto a una volta e, almeno sulla carta, nessuno sarebbe pronto a sostenere che da un punto di vista medico e biologico vi siano delle discrepanze di genere; cioè nessuno è legittimato ad andarsene in giro a dire che le donne sono biologicamente inferiori agli uomini. Così come nessuna legge – a parte alcuni piccoli cavilli rimasti qua e là – certifica la differenza di genere in senso peggiorativo, cioè che la donna non ha diritto di fare certe cose, mentre l’uomo si. Quindi, da un punto di vista della legge e della biologia potremmo affermare che effettivamente la parità o l’equità di genere esiste”.

Temo che questo non sia un pensiero condiviso proprio da tutti.

“Beh, certo, al netto dei razzisti, ovvio, vi sono ancora delle sacche di resistenza. Ma quelli sono dei poveracci e tocca trattarli come tali. Io mi riferisco al sistema, che ufficialmente non discrimina fra uomini e donne. Poi, però, a livello individuale, è chiaro che non è così. È difficile riconoscere l’esistenza di discriminazioni sistemiche. Da nessuna parte c’è scritto che le donne devono guadagnare meno degli uomini, ma la disparità di salario è un dato di fatto, spesso legata alla possibilità di accumulare bonus da parte del lavoratore. Tutto si riconduce all’idea, ancora persistente, che il lavoro di cura debba ricadere per forza sulle donne. Sto leggendo in questi giorni l’ultimo libro della demografa Alessandra Minello, che si occupa proprio di questi temi. Il libro si intitola Genitori alla pari (Feltrinelli, 2024) ed è scritto in collaborazione con Tommaso Nannicini. Cosa succede quando una donna aspetta un figlio? Permane il rischio di perdere il lavoro o di venire demansionate. Nel mondo anglosassone la chiamano child penalty. Il papà, invece, potrebbe addirittura ricevere una promozione o qualche forma di bonus, perché è ancora codificata nella nostra cultura l’idea che la donna che partorisce poi diminuirà il tempo dedicato al lavoro, perché si dedicherà alla cura della prole, mentre l’uomo vorrà probabilmente essere ancora più performante per mantenere al meglio la famiglia e quindi si merita una promozione”.

Sembra un quadro di quaranta, cinquant’anni fa. Lei pensa davvero che sia ancora così?

“I dati parlano chiaro. Prendiamo ad esempio quelli dei posti di lavoro persi durante la pandemia Covid: la stragrande maggioranza sono di donne. Per due motivi differenti: la donna normalmente non è la bread winner della famiglia, non è quella che guadagna di più. Quindi è la prima a rimanere a casa in caso di tagli al personale. La seconda ragione è che essendo stati chiusi i nidi e le RSA, la persona in famiglia su cui si tende a far ricadere la cura di bimbi e anziani è la donna. Questo non è un requisito di natura, ma culturale. È ampiamente dimostrato che l’attenzione alla prole o ai vecchi da parte delle donne non è una predisposizione biologica, ma deriva dall’educazione di genere, un’educazione che ancora oggi è diversa per le donne”.

Cosa pensa di chi sostiene che l’attenzione e l’impegno nell’uso cosciente e responsabile della lingua per educare al rispetto e all’inclusività sia una delle tante insopportabili declinazioni della famigerata cultura “woke”?

"Anche in questo caso mi limito a dire che sono dei poveracci. Quando ciò accade suggerisco sempre di osservare bene i soggetti che si lamentano del fatto che non si può più dire nulla, che sono tutte sciocchezze, che siamo ormai schiavi della dittatura woke, eccetera. Raramente sono soggetti che appartengono a categorie marginalizzate, molto spesso sono maschi etero cisgender, sono persone senza disabilità, neurotipiche e con corpi conformi, quasi sempre benestanti. Ciò che li accomuna è proprio il non essere portatori e portatrici di una differenza che possa dare adito a discriminazione sociale e culturale e, soprattutto, il fatto di condividere un privilegio, che è quello di non avere subito parole inadeguate o offensive in maniera sistematica. Una cosa è che sei stato preso in giro da ragazzino perché avevi gli occhiali spessi o le orecchie a sventola: quella è una questione spiacevole, ma meramente individuale. Altra cosa è essere discriminato come parte di una categoria, come nel caso delle persone di colore, delle donne, delle persone transgender e le persone grasse. Nella nostra società permane la facilità di subire in maniera sistematica un etichettamento coatto da parte degli altri, per cui talvolta non possiamo neppure decidere come farci chiamare, ma ci vengono affibbiati nomi e definizioni che altri hanno scelto per noi. E questo ovviamente genera un disagio. Mi viene in mente quello che dice il filosofo e aforista rumeno Emil Cioran: “Non si abita una nazione, si abita una lingua”. Potremmo dire le persone portatrici di caratteristiche che le marginalizzano è come se si trovassero ad abitare, con scomodità e disagio una lingua che li priva di cittadinanza legale. Ecco, coloro che sostengono che siamo ormai sottomessi a una dittatura woke di solito sono persone che questi disagi non li hanno mai subiti e questo basta a delegittimare completamente il loro punto di vista: se non hai battuto una craniata sul soffitto di cristallo o contro il muro di cemento della discriminazione sistematica o sistemica, è facile che tu possa pensare che le parole non sono importanti e che queste siano tutte menate mentali, elucubrazioni senza una reale utilità pratica. E invece ce l’hanno, perché la comprensione del valore delle parole ci aiuta a cambiare, ad innescare circoli virtuosi o a disinnescare circoli viziosi”.

Se esiste un fronte progressista che si dà da fare per abbattere pregiudizi e ampliare i margini di accettazione delle identità e delle differenze grazie all’uso responsabile del linguaggio, si assiste parimenti e sempre più a un’operazione opposta messa in campo dalle forze ultraconservatrici. La GPA diventa quindi “l’utero in affitto”; quando va bene è una “maternità surrogata”. Secondo una legge grottesca approvata al Senato qualche giorno fa ora dobbiamo considerarla un “reato universale”. Da anni, poi, l’interruzione volontaria di gravidanza è presentata come un omicidio... Come dobbiamo considerare questo fenomeno? Un blaterare becero e a casaccio o una raffinata strategia di contrasto?

"Queste scelte linguistiche non sono certamente innocenti o naïf. Dietro questo utilizzo c’è la consapevolezza che determinate parole danno origine nel nostro cervello a narrazioni diverse, che alterano la percezione della realtà dei fenomeni che descrivono. Non è involontario che i Pro Life chiamino la GPA “utero in affitto” o che Papa Francesco chiami i medici non obiettori “sicari”. Non c’è alcuna sbadataggine, sono usi dettati solo dalle loro convinzioni, metodi per manipolare l’opinione pubblica. D’altra parte la manipolazione dell’opinione pubblica è una caratteristica che accomuna tutte le istanze populiste, basate sull’idea che il popolo sia un po’ bue e vada condotto a pensare in un determinato modo. È una strategia ideologica molto precisa, che però attecchisce facilmente, perché non solo ti descrive un fenomeno, ma ti dice anche come pensarla su quel fenomeno. In qualche modo ti alleggeriscono dalla necessità di pensare, tu acquisisci l’opinione già formulata e ti adegui”.

Ha a che vedere con l’efficacia della banalizzazione, per certi aspetti, no?

"Certo che sì. Va detto che spesso queste sono questioni che molti non prendono neppure in considerazione. La criminalizzazione della GPA ha attecchito così facilmente perché la maggior parte delle persone non ritiene che avrà mai bisogno della GPA. Si pensa, fallacemente, che sia una questione che riguarda soprattutto le coppie omoaffettive e non, di fatto, tutte le coppie che per un motivo o per l’altro non possono avere un figlio”.

Il suo ultimo saggio, Grammamanti, ci invita ad innamorarci delle parole, ad avere con esse un rapporto sentimentale. Lo vede come un rapporto esclusivo e monogamo o più simile a quello di una coppia aperta?

“No, assolutamente non monogamo. Andrei anche al di là della coppia aperta. Io credo che, quanto meno nella lingua, sia offerta la possibilità a chiunque di sperimentare una relazione poliamorosa, perché le lingue non sono gelose l’una dell’altra. Non si prendono né si tolgono spazi a vicenda. Possiamo essere serenamente poliamorosi, senza vergognarci di giocare e flirtare con tutte le lingue che conosciamo, compresi i dialetti”.

L’appuntamento

L’incontro si terrà sabato 26 ottobre presso la Libreria Giunti Odeon di via degli Anselmi, angolo Piazza Strozzi, tra le 15 e le 16:30. Al panel, oltre a Vera Gheno, partecipano Marcella Corsi, economista di genere, Carolina De Castiglioni, attrice, e Maria Nella Lippi, responsabile Programma Giustizia di genere di Oxfam Italia.