Non è solo un'azienda produttrice.
Dinicaffè nasce ad inizio '900, nel cuore della città di Firenze, come
laboratorio artigianale e, da allora, non ha mai perso la propria anima votata alla diffusione del caffè di qualità. "Quando le persone vanno nei migliori ristoranti del nostro Paese viene offerta loro la più varia selezione di vini" commenta
Serena Nobili, terza generazione della famiglia dei fondatori che, attualmente, dirige l'azienda insieme alla
sorella Benedetta. "Ma se è vero che di vino esistono 1400 aromi differenti, di caffè ve ne sono addirittura duemila; purtroppo però al contenuto della tazzina che conclude ogni pasto, in Italia, non viene concessa la stessa attenzione. Anche la qualità in una tazzina si percepisce dal gusto, un gusto che racconta l'origine e la coltivazione della pianta, il suo processo di tostatura e molte altre cose che non si vedono osservando una tazzina, ma che si possono sentire".
Le sorelle Serena e Benetta
Da nonno Alberto Benedetta e Serena non hanno ereditato solamente un'azienda, dunque, ma una filosofia legata ad
uno dei prodotti più amati in Italia, cui secondo Serena - giovane imprenditrice di 41 anni - non viene prestata la giusta attenzione. “Il problema nel nostro Paese è il prezzo della tazzina, un prezzo politico che non significa nulla, rispetto alla qualità del prodotto.
È tra i prodotti più amati dagli italiani ma, secondo Stefania, non se ne valorizzando a pieno le qualità
Ordinando un bicchiere di vino avremo la possibilità di scegliere tra numerose varietà, ognuna con il proprio prezzo. La nostra opinione è che lo stesso dovrebbe accadere anche con la tazzina di caffè. Come azienda, noi garantiamo al consumatore una
tracciabilità completa del prodotto,
dalla pianta alla tazza, eppure al bar il nostro caffè ha lo stesso prezzo di uno commerciale di scarsa qualità e di basso livello. Al consumatore, insomma, non viene data scelta e neanche offerta la possibilità di comprendere le sfumature e
gli aromi di una bevanda che, prima di tutto, deve essere piacevole. A chi invece non è capitato di trovarsi a bere un caffè bruciato ed eccessivamente amaro? Nell'azienda fiorentina ogni piccolo dettaglio, dalla raccolta alla miscelazione, rispetta una lavorazione tutta artigianale, eseguita sempre con gli stessi principi, e così tramandata da oltre 80 anni".
La storia del Dinicaffè
La storia di questa antica torrefazione fiorentina inizia con Alberto Dini, che avvia la sua carriera lavorando per un’azienda di coloniali. Dalla vendita di zucchero e tè passa a quella del caffè, ed è così che
nel 1939 nasce Dinicaffè, nel pieno centro storico del capoluogo toscano. "Mio nonno fondò l'azienda in quella che si chiama Via dell'Acqua, nefasto nome perché nel
1966 Firenze venne distrutta proprio dall'
alluvione, e con essa anche la nostra azienda. Ma mio nonno era un uomo coriaceo e determinato, decise di spostare gli uffici e il confezionamento in casa e di farsi temporaneamente tostare i chicchi da una torrefazione di Pistoia. Ricominciò dunque subito a lavorare e, nel frattempo, acquistò una sede sulla collina fiorentina, per mantenersi al sicuro dalle acque dell'Arno. Nel tempo però abbiamo avuto bisogno di spazio, abbiamo acquistato immobili adiacenti al nostro e siamo pian piano scesi lungo la collina fino a ritornare in basso vicino al fiume, almeno per un tratto". La struttura dell'azienda, in effetti è davvero particolare, si potrebbe persino dire unica al mondo, perché si sviluppa su quattro livelli e accompagna l'andamento del terreno collinare, fino a raggiungere e coinvolgere le mura trecentesche della città.
Il fondatore Alberto Dini nel 1980 lascia il testimone dell'azienda alle figlie: nasce in quel momento un vero e proprio family business al femminile, che oggi prosegue con le sorelle Serena e Benedetta
Dal fondatore Alberto, nel 1980 il testimone passa alle figlie Elisabetta e Laura e da quel momento si può parlare di un vero
family business al femminile. Ma è il 1996 l’anno decisivo per l’evoluzione della strategia aziendale, quando la qualità si impone come punto fondamentale della produzione: Dini, insieme ad altri torrefattori italiani, fonda l’
Associazione Caffè Speciali Certificati (CSC), ossia un consorzio dedicato alla tutela della qualità e alla sua totale tracciabilità dalla pianta alla tazzina. “All'epoca mettere in pratica
un'idea come questa era folle, nessuno credeva sarebbe stato possibile un tracciamento in maniera così completa, invece tutt'oggi il consorzio esiste e non si limita a garantire la tracciabilità dei nostri prodotti, ma lavora su diversi altri
aspetti etici, sociali e ambientali. Teniamo conto di decaloghi accuratissimi per la scelta delle nostre piantagioni". Nel 2009 i valori aziendali si rafforzano ulteriormente proprio grazie a Serena e Benedetta, che con la stessa passione e lo stesso impegno del nonno continuano a mantenere vive le tradizioni per la lavorazione di un caffè di alta qualità, guardando però anche avanti e investendo nella realizzazione di un "Coffee Lab", ossia uno spazio moderno all'interno dell'azienda adibito a laboratorio degustazione e sperimentazione, nonché luogo di formazione.
Serena, ci racconti qualcosa di più sulle varietà che offrite... "Le varie miscele che proponiamo, sia in grani ad uso bar, sia macinate per uso domestico, sono composte dalla miglior selezione arabica e robusta. Per esempio la Linea Mono, Specialty coffee non solo mono-origine ma anche mono-piantagione, tutti certificati CSC, ovviamente".
Uno dei fiori all’occhiello dell’azienda è certamente la sua sostenibilità, con le capsule e cialde 100% compostabili, giusto? "Sì. L’attenzione al prodotto, all’ambiente e all’etica è dimostrata dalla certificazione CSC; inoltre, io e mia sorella siamo tra i soci fondatori dell’
International Women Coffee Alliance (IWCA). Garantire una tracciabilità dalla pianta alla tazza ancora oggi non è semplice, perché i Paesi produttori solitamente sono molto poveri.
Le titolari dell'azienda fiorentina sono molto attente anche alla sostenibilità del prodotto
Nell'immaginario comune le piantagioni sono enormi, come quelle brasiliane per intendersi, ma la realtà è che nel resto del mondo i coltivatosi sono poveri contadini che possiedono appena un
ettaro di terreno e non hanno la forza di produrre, lavorare ed esportare da soli il proprio chicco. Ecco perché fanno capo ad una cooperativa, cui comunque afferiscono in molti, per cui diventa difficile per un'azienda trovare un prodotto di un certo livello, la cui origine sia omogenea e garantita. Per di più noi controlliamo che i coltivatori non sfruttino il lavoro minorile, che retribuiscano in modo equo i lavoratori ecc. Io, per esempio, conosco personalmente tutti i produttori da cui mi servo, con alcuni abbiamo anche rapporti di amicizia".
Intende dire che si reca personalmente a visitare le piantagioni? "Sì. Siamo andati a conoscerli, abbiamo visto con i nostri occhi come coltivano le piante e come trattano le persone con cui lavorano. I Paesi sono tanti, così come sono stati tanti i nostri viaggi: dal Brasile alla
Colombia, dalle Honduras al Guatemala, dalla Costa Rica all'Etiopia e all'India”.
Ci racconta qualcosa della vostra “Coffee Lab” experience? "L’esperienza in torrefazione inizia con un’introduzione al mondo del caffè e un breve excursus alla sua storia ed alle generazioni che si sono susseguite nella sua conduzione. Segue una visita guidata dell’azienda, step by step, in cui vengono ripercorse tutte le fasi di produzione della miscela. È poi il momento del 'laboratorio di tostatura', nel quale viene tostato un campione per comprenderne i diversi livelli, e della preparazione di un espresso e un cappuccino a regola d’arte. Quella del Coffee Lab è stata una vera e propria sfida personale: poco prima del Covid avevo notato che su Airbnb vengono proposte
experience di questo tipo e avevo subito pensato che potesse essere un'occasione per avvicinare le persone alla cultura del caffè di qualità. Inoltre, spesso e volentieri capitava che le persone, incuriosite dal forte odore che pervade la strada, suonassero il campanello della nostra azienda per sapere di cosa si trattasse. Di qui l'idea di strutturare la cosa come mezzo per fare cultura. Da giugno scorso, passando attraverso il canale di Airbnb e quello delle scolaresche, l'iniziativa ha preso avvio con grande successo. Con l'aiuto di un professore di economia abbiamo sviluppato una parte dedicata al family business (fenomeno quasi esclusivamente italiano che incuriosisce gli stranieri) per raccontare cosa sia e come funzioni nella pratica un'azienda di questo tipo".
Come sono suddivisi i ruoli tra lei e sua sorella Benedetta? "Lei è la 'donna dei numeri', io penso alla parte in cui i numeri non c'entrano proprio. Per esempio seguo i rapporti con i clienti e ho fatto corsi per diventare Q-Grader, ossia assaggiatore di arabica e robusta (le due specie botaniche più famose, benché in realtà tra le piante esistano molte specie e infinite varietà).
Serena e Benedetta Nobili portano avanti il family business fiorentino nato nel 1939 adattandolo alle novità del mercato
Chi lavora con noi ha un ruolo disegnato sulla propria persona, che può anche cambiare a seconda dei mutamenti delle proprie competenze o desideri. Per esempio ho persone impiegate da 40 anni che nel tempo hanno cambiato posizione: il nostro attuale tostatore inizialmente era l'agente di vendita e consegna del caffè. Poi le sue inclinazioni sono cambiate e lo abbiamo spostato. Io e mia sorella pure adattiamo i ruoli alle nostre competenze. In un'azienda come la nostra, con solo 8 dipendenti, questo è ancora possibile".
Dove possiamo gustare il vostro prodotto? "Seguiamo il normale canale Ho. Re. Ca, ossia distribuzione a bar, ristoranti e alberghi, che cerchiamo di seguire con molta attenzione. Il nostro bacino principale si trova in Toscana e in Umbria, ma abbiamo anche un e-commerce e, ovviamente, la vendita diretta in torrefazione".
Prendere le redini dell'azienda di famiglia è sempre stato nella mente sua e di sua sorella? "Più che altro un tacito accordo; ci sembrava fisiologico proseguire la mission di famiglia, come nostra madre e nostra zia avevano fatto prima di noi. In realtà io sarei una grafica, laureata allo IED di Milano, e mia sorella un ingegnere gestionale abilitato. Per un po' ho lavorato fuori azienda, ora a tempo perso do una mano all'agenzia che ci segue".
Un'ultima curiosità: quante tazzine si possono bere al giorno, senza rischiare di nuocere alla propria salute? "Un domanda che mi viene posta spesso. Prima di tutto bisogna considerare il livello di caffeina: la robusta ne ha il doppio rispetto all'arabica. Inoltre, l'arabica di un certo livello ne ha meno rispetto ad una commerciale. Si dovrebbe anche valutare il processo di estrazione: in un filtro all'americana, l'acqua che attraversa la polvere è molta, dunque anche la quantità di caffeina sarà superiore rispetto a quella presente in un espresso. Potremmo quindi dire che di un 100% arabica, Specialty coffee, espresso, possiamo berne anche 4/6 tazzine al giorno. Se invece assumiamo prodotto di bassa qualità, con un'alta percentuale di robusta - come ormai purtroppo è mediamente prassi in Italia -, una tazzina al giorno sarà più che sufficiente, perché potrebbe nuocere allo stomaco in quanto questo tipo di bevanda non è digeribile. Dico solo che in Italia ci sono molte torrefazioni, oltre 900, alcune ottime altre meno. A volte vale la pena spendere un centesimo in più e scegliere un prodotto di qualità migliore".