“Prima cambiamo mentalità”: inclusività e antirazzismo secondo Sambu Buffa

Inclusive marketing strategist per molte importanti aziende e organizzazioni, punta a creare consapevolezza in azienda sulle potenzialità che può avere – anche in termini di profitto –l’inclusione vera della diversità: “Essere diversa vuol dire avere un punto di vista unico sulle cose”

di MARIANNA GRAZI
21 giugno 2024
Sambu Buffa (Ph. Marzia Allietta)

Sambu Buffa (Ph. Marzia Allietta)

Sapreste individuare la provenienza di una persona solo sentendola parlare ma mantenendo ben chiusi gli occhi, senza vederla? Oppure basta il suo aspetto a capirne l’identità? Assolutamente no, come non bastano il nome, il luogo d’origine, l’età, la provenienza per definire quella persona. Come non bastano uno spot pubblicitario o un cartellone, un claim sui social, per definire un’azienda. Se questa rispetta o meno al suo interno, prima che con gli utenti e i consumatori, i valori che professa o che adotta sulla scia di una tendenza alla maggior attenzione alla diversità, all’equità e all’inclusione. 

Che Sambu Buffa, 39 anni, sia afrodiscendente è forse l’unica cosa che potremmo ipotizzare vedendola, senza però – è qui che sta il cambio di mentalità – assumere questo fattore come esaustivo. Inclusive marketing strategist, che da anni lavora con aziende, importanti organizzazioni e freelance per costruire e diffondere consapevolezza e combattere l'antirazzismo dal basso, nasce a Kinshasa (capitale della Repubblica Democratica del Congo) e viene poi adottata, diventando cittadina italiana. In Italia frequenta la scuola, l’università, lavora, vive, forma la sua famiglia. E scrive un libro, “Cambia mentalità in chiave di diversity, equity and inclusion nella tua attività” (Flaco Edizioni) in cui sostiene che prima di fare comunicazione inclusiva le aziende dovrebbero iniziare a lavorare sulla mentalità delle persone, perché “senza mettersi in discussione, è impossibile cambiare le cose”. Cosa significa lo abbiamo chiesto direttamente a lei.

Sambu, partiamo proprio dalle basi: si dice persone nere o ‘di colore’?

“Si dice nereDi colore si diceva in passato e quando si parla di politically correct è proprio questo, ‘un’imposizione’ della persona bianca per sentirsi a posto che dovrebbe far piacere al soggetto in questione. In Italia di colore dovrebbe essere la traduzione di people of color, ma non lo è: in America people of color sono le persone non afrodiscendenti, dell’Asia soprattutto. Di colore deriva invece da colored, termine dispregiativo usato durante la segregazione razziale e l’apartheid per identificar i luoghi e gli spazi per i bianchi e i neri. Ecco perché anche in questo Paese è ancora profondamente radicato il razzismo”.

Lei è specialista in diversità, equità e inclusione per le aziende. Ma cosa significa oggi?

“Oggi parlare di queste tematiche, Diversity, Equity & Inclusion, è qualcosa di necessario e una sfida, soprattutto perché sono argomenti che le persone sentono e di cui le aziende non hanno ancora capito realmente il potenziale: non solo inteso come potenziale economico, ma di qual è l’impatto che si può creare attraverso questo approccio. Io faccio un lavoro a cui cerco di dare una direzione e confini molto definiti, ma mi trovo al tempo stesso ad essere l’utente dall’altra parte, che subisce pratiche politiche, comunicazioni che sono escludenti”.

Ha studiato legge, per anni ha lavorato come commessa e ora nel mondo del marketing. Come c’è arrivata? E cosa si porta dietro di questo percorso ?

“Mi rendo conto che quello che volevo fare prima, studiare legge, fare la criminologa, l’avvocata, era tutto parte dell’ambiente che mi circondava: sono una persona cresciuta con l’idea di dover dimostrare alla società che, per il fatto di essere riuscita ad arrivare a un punto, essermi laureata, avere un lavoro, mi meritavo un posto al suo interno. In quanto persona prima afrodiscendente e razzializzata, poi in quanto donna. A un certo punto della mia vita ho capito però che questa cosa mi stava stretta, mi stava stretta l’idea di dover sempre vivere in funzione di una legittimazione esterna: io non avevo assolutamente nulla da dimostrare.

Allora ho provato a scoprire perché mi fossi sempre sentita in quel modo: ho scoperto che non ero l’unica e la macchina dell’esclusione, e da lì ho iniziato il viaggio al contrario. Perché si esclude? In che modo? Come posso fare l’opposto? Ecco perché nel mio lavoro provo a trovare dei processi, delle modalità per includere persone che sono escluse. Ma volevo anche costruire qualcosa, supportare il cambiamento: ho sempre fatto inclusione a livello sociale, offline, nel privato e nel quotidiano. Non avevo mai pensato che potesse essere un lavoro”.

Che rapporto ha con la diversità?

“Mi sono resa conto, lavorando come commessa in un negozio, che davo per scontate tante cose che non lo erano. Ti racconto di due dei miei migliori clienti: uno era un ragazzo in sedia a rotelle, sinto, che girando insieme ad altri amici della sua comunità in tutti gli altri negozi in cui entrava non veniva servito. L’altra persona è una donna trans: mi sono fatta delle domande e ho cercato di trovare delle risposte, chiedendo a lei in che modo valorizzare quello che lei voleva”.

Sambu Buffa (Ph. Marzia Allietta)
Sambu Buffa (Ph. Marzia Allietta)

La tematica della D&I viene usata a proprio vantaggio dalle aziende?

“Sì. Però dico sempre che non bisogna vivere in un mondo utopico: è anche e soprattutto questione di profitto, dobbiamo accettare che a volte certe tematiche vengano affrontate nella maniera peggiore, ma se in qualche modo serve per far iniziare a riflettere allora è importante che succeda. L’inclusione non è solo una questione sociale, ha a che fare anche con l’economia, con le persone. Io riconosco l’errore e lo faccio riconoscere all’azienda, poi si deve andare avanti e fare qualcosa perché siamo in un mercato in cui i consumatori sono molto attenti. E basta un niente per crollare”.

Un esempio in questo senso?

Chiara Ferragni. Le è bastata una cosa e mi dispiace perché non è l’unica che ha fatto un errore così ma l’occhio mediatico è su di lei. In altri casi la shitstorm si risolve molto più velocemente, passando poi in sordina. Basta pensare a Nike: spesso viene nominata come la paladina di diversità e inclusione, e non è detto che non lo sia ma io non mi dimenticherò mai le immagini abominevoli dei bambini che cuciono le scarpe e i palloni della Nike, è un’immagine che ha accompagnato la mia infanzia. L’evoluzione ci sarà anche stata ma mi chiedo poi a livello di politica quanto ci sia di vero”.

Ci cita qualche azienda virtuosa?

“Parliamo di realtà virtuose all’interno di una società che sta facendo passi avanti. Una ce l’ho, è nata con questi valori, non è italiana è inglese, ma la adoro: Our Place. È un’azienda di pentole, la ragazza che l’ha fondata è pakistana, il brand è nato nel 2020, periodo Covid e ha fatto della propria comunicazione, per lanciare il prodotto, il messaggio dello stare a casa. Unisce la cultura (piatti tipici), diverse generazioni, diverse abilità e capacità.

Un altro esempio virtuoso è anche Gillette e l’evoluzione che ha fatto da ‘rasoi per uomini’ (molto machista, maschile, l’uomo bello, palesato, a torso nudo) a prendere una posizione chiara, sostenendo la comunità Lgbtqia+ e le persone trans. Per me è cosa non da poco far vedere in una pubblicità una persona mixed o comunque razzializzata, in transizione, col papà che le insegna a radersi”.

Lei è stata adottata, ma ha mantenuto i contatti con la sua famiglia d’origine. Ha influito la sua esperienza di bambina poi nel suo diventare madre?

“Tantissimo, non voglio dire negativamente o positivamente, ma sicuramente ha influito tanto. Il fatto che sia stata adottata, il fatto che abbia un dialogo con la mia famiglia d’origine, permette ai miei figli di essere preparati da questo punto di vista, non andare in confusione o sentirsi sbagliati. Se non c’è un sistema alla base che te lo spiega, non solo quello familiare ma anche scolastico, è un problema, perché si demanda al ragazzino o ragazzina lo spiegare perché nella sua famiglia è così, invece che prendere spunto per raccontare quell’aspetto all’intera classe. Il sistema scuola non affronta per niente la diversità, quantomeno dove vivo io. Soprattutto in ambito di educazione all’affettività siamo sempre fermi lì, alla riproduzione per procreare”.

Sambu Buffa (Ph. Marzia Allietta)
Sambu Buffa (Ph. Marzia Allietta)

Qual è stata la discriminazione peggiore che ha subito?

“Quelle che subisco sempre sono prevalentemente in riferimento al colore della mia pelle. Quella più brutta è stata quando erano già nati i miei figli, cercavo di nuovo lavoro e avevo visto un negozio di abbigliamento qui a Cuneo che cercava una commessa ‘con comprovata esperienza nel campo’. Io ho lavorato nell’ambito per circa 15 anni quindi ho mandato il curriculum. Tre volte. Non mi hanno mai chiamata, nonostante continuassero a cercare. Avevo una sensazione quindi faccio un esperimento sociale: modifico il nome, il luogo di nascita e metto la foto di una mia amica, bianca, che aveva acconsentito a ‘prestarmi’ la sua identità. Mi hanno chiamato dopo due ore.

La seconda discriminazione, sempre in ambito lavorativo: cercavo un impiego, mando il curriculum a un call center vicino casa, non mi ha mai risposto; vado all’ufficio collocamento, me lo fanno mandare di nuovo allo stesso posto e nulla. Un giorno mi trovo al parco giochi con una ragazza, parliamo e mi fa presente che dove lavora stanno cercando. Un call center guarda caso. Le do il mio numero, mi chiamano, faccio il colloquio, tutti gli step, mi dicono che va bene e solo a quel punto io chiedo che fine avessero fatto i miei curricula mandati in precedenza, se li avessero ricevuti. Il titolare mi fa: ‘Sì, l’abbiamo ricevuto, ma sai, ho visto il nome… pensavo non parlassi bene l’italiano’”.

E la domanda più curiosa che le è stata fatta?

“La più strana e la più divertente è stata da parte di una bambina che mi ha detto: ‘Tu sei nera perché il nero attira il sole, vero?’. Se passiamo agli adulti ne ho una sfilza, ma la cosa più strana è stata: ‘Tu mangi poca verdura perché in Africa non ci sono le verdure’. Non ho saputo cosa rispondere, è stata la più strana che mi sia stata fatta”.