Lo scorso ottobre, per Giulio Perrone editore, è uscito “Prima che chiudiate gli occhi”, il primo romanzo di
Morena Pedriali Errani, 27enne nata e cresciuta a Ferrara. Di
etnia Sinti, discendente di una
famiglia di circensi - tradizione che lei stessa coltiva con passione -, è già nota al pubblico per essere arrivata in semifinale al Premio Campiello Giovani 2017 e al Premio Chiara Giovani 2018, oltre ad avere presentato alcuni scritti al Parlamento europeo a Bruxelles nel 2022 assieme all’associazione rom
Phiren Amenca. L'autrice è infatti
un’attivista per le minoranze romanì e parte del team Comunicazione di
Movimento Kethane.
Morena Pedriali Errani: "Con la scrittura plasmo il mio mondo"
Da dove nasce la sua passione per le parole? "In realtà non so dare un'origine al mio rapporto con la scrittura. Non c'è stato un momento x della mia vita in cui ho iniziato a farlo, da che ho ricordo è sempre stato il mio rifugio. Tutto partiva dalla necessità di creare un mondo che sentivo esserci già, al di là delle cose, un mondo in cui i sinti avevano voce e
tutti 'gli ultimi' trovavano giustizia. Un mondo che, chiaramente, non vivevo e che però volevo a tutti i costi rendere reale. Per me è stata questa la scintilla, plasmare il mio mondo attraverso la carta, cercare di farne un messaggio.
La 27enne firma le copie del suo primo romanzo, "Prima che chiudiate gli occhi"
Sicuramente avevo alle spalle antenati che mi hanno guidato, vengo da una famiglia circense e di artisti di strada, c'è tanto che rimane nel sangue a raccontare. Ho scoperto solo dopo tanti anni che anche il mio bisnonno, Sinibaldo Errani, scriveva ma, per via del pregiudizio e delle condizioni economiche precarie, non riuscì mai a farsi pubblicare in vita. Segno che qualcosa rimane davvero e spero, attraverso quello che faccio, che lui ora possa trovare voce anche dentro le mie parole".
Le sue origini sinti, e segnatamente la storia della sua famiglia, in cosa condiziona il suo approccio alla scrittura? "Io vivo il mio rapporto con la scrittura come un'arma per poter dare voce ai
miei antenati silenziati, alle loro rivolte che ci sono state sempre ma che nessuno ha conosciuto. Loro passano dalle mie dita quando scrivo e c'è vento tutto intorno perché attraverso di me abbiano parola. Ascolto molto il vento, per noi è la voce di chi ci ha preceduto che ora ci scalda e ci protegge o ci congela quando abbiamo bisogno di riprendere il cammino. Per noi gli antenati sono sacri, li amiamo profondamente e ne abbiamo rispetto oltre ogni cosa, anche perché spesso ci sono stati strappati con la forza e non hanno avuto giustizia in vita. Forse non avrei mai trovato casa nella scrittura se così tanto dolore non mi fosse stato trasmesso con la fierezza tipica dei sinti, con il senso di umanità insito nella nostra cultura che non scompare nemmeno dopo secoli di persecuzione. L'oralità tipica della nostra tradizione è stato un buon punto di partenza, renderla nello scritto non è semplice ma cerco di far combaciare le due cose perché entrambe sono parte di me".
Una storia familiare che diventa canto corale
Il romanzo d’esordio "Prima che chiudiate gli occhi" è ispirato alla storia di sua nonna, che fu vedetta partigiana durante la Guerra di liberazione dal nazifascismo, ma è anche un 'racconto corale' della storia di un popolo discriminato. Come è nata l'idea, perché e come si è sviluppata? "Le prime pagine del romanzo sono nate dopo un anno dalla morte di mia nonna Fiammetta. C'era la necessità di attraversare il dolore, sedercisi a parlare, di comprenderlo e capire come non renderlo sterile, vano. Volevo che il mondo la ricordasse, anche se per il mondo era stata una persona comune. Credo ci sia una particolare straordinarietà nelle persone che non notiamo, nell'umanità sommersa. Nonna Fiamma era stata tante cose per me e volevo che le fosse anche per il resto del mondo. Di nuovo, darle una memoria laddove ci era stata collettivamente strappata dall'antiziganismo e, individualmente, dalla malattia che l'ha portata via, l'Alzheimer. 'Prima che chiudiate gli occhi' ha avuto una lunghissima gestazione (ho iniziato a scriverlo a 17 anni, ora ne ho 27) perché volevo che fosse il più fedele possibile allo sguardo dei sinti, che avesse proprio una voce sinta. E, al tempo stesso, mi serviva per poter guardare in faccia il vuoto che la morte di mia nonna aveva lasciato nella mia vita.
Con la scrittura racconta sia la storia di sua nonna fiammetta che quella corale della sua etnia
Lei era e sarà sempre come una seconda madre per me. Perché le sono bastati pochi, piccoli atti di ribellione quotidiana per darmi un esempio che porterò dentro tutta la vita. Volevo che il libro, finalmente, prendesse in mano una narrazione che per così tanto ci è stata negata. Al tempo stesso Jezebel, la protagonista, è una pluralità di voci femminili della mia famiglia come di tante altre sorelle sinte che ho incontrato sul mio cammino. C'era in comune la rabbia, la voglia di riscatto, di una nuova narrazione. Perché ci si dice sempre che 'dovremmo integrarci' (ignorando che siamo in Italia ormai da secoli e che comunque abbiamo sempre contribuito attivamente allo sviluppo della società attraverso arti e mestieri, attraverso la lotta di Liberazione etc.), ma noi non volevamo essere integrate in una società che disumanizza chi sta ai margini, volevamo riscriverne una nuova, più umana. Nel libro ho cercato di dar voce a questo sentimento, spero che le mie sorelle sinte possano trovare un canto comune che, nel mio piccolo, le faccia sentire meno sole. Nel libro dico che nulla muore quando è amato e io so che, nel vento, le nostre antenate cantano ancora. Spero che possano farlo anche attraverso le pagine di questo romanzo".
La tradizione (dolorosa) tradotta in un messaggio
Nelle sue poesie predilige una scrittura densa di immagini e di contrasti anche lessicali, in una dimensione spesso onirica o comunque immaginifica. Come ha tradotto tutto questo nella scrittura di una storia biografica? "Come detto prima, ho tratto ispirazione dall'oralità tipica delle leggende sinti, come si può vedere nel libro, negli intermezzi intitolati 'Canta vento gelido'. Per me era fondamentale rendere lo scritto così, quasi seguendo il ritmo di una nostra ballata dolente, perché così noi ricordiamo le cose, le mettiamo in musica,
in arte. Tradurlo in scrittura ha significato, per me, fondere entrambe le mie origini (mia madre è gadji, non sinta) in modo che finalmente potessero trovare l'una spazio nell'altra ed essere eco l'una per la voce dell'altra. Ho dovuto ascoltare questo contrasto e far sì che potesse suonare melodie diverse ma sullo stesso tempo. In un certo senso, è stata una riscoperta di me, quindi difficile ma anche naturale".
Essere parte di una minoranza discriminata che riverbero ha sulla sua espressione artistica? "Io non voglio essere vista come una vittima, ma come la discendente di fieri partigiani. Partigiani sì, della lotta di Liberazione, come partigiani di vite e secoli precedenti, persone che hanno resistito a qualsiasi persecuzione conservando dignità e fierezza. Con l'arte cerco di portare avanti questo messaggio. È pericoloso interiorizzare il vedersi vittime quando lo si è davvero, perché ti porta a rassegnarti; noi siamo ciò che siamo anche perché non abbiamo mai perso la nostra essenza e l'abbiamo amata nonostante tutto. È difficile e doloroso quando i media ti bombardano di
narrazioni tossiche e razziste e tu non hai voce o ne hai meno degli altri solo perché sei nato sinto. Ma noi resistiamo, ancora e continueremo a farlo finché non avremo davvero quel riscatto, quell'umanità nuova in cui tutte le vite abbiano lo stesso valore e anche noi, finalmente, saremo riconosciuti".
Pedriali Errani è anche attivista per le minoranze romanì
È solita giocare, anche con grande ironia ed autoironia, con gli stereotipi dai gagi verso i Rom e Sinti e, d'altro canto, anche dei i Sinti e dei Rom verso i gagi. Perché? "Perché l'ironia mette a nudo l'insensatezza del pregiudizio, la sua inutilità. Perché, dopotutto, sono figlia del circo e nel circo questo si fa: si trasforma il dolore in atto di leggerezza che, come diceva Calvino, per noi non significa superficialità ma planare sulle cose dall’alto".
Oggi c'è una grande attenzione verso i diritti civili: la lotta contro le discriminazioni è diventata un tema mainstream? "Sì, e vale anche per noi. Perché continuiamo a basare il nostro attivismo su logiche e dinamiche che appartengono alla società che combattiamo, soprattutto sui social. L'intersezionalità di cui tanto si parla oggi è spesso ipocrita, perché si ferma fino a dove non c'è un privilegio da decostruire. Per dire, mi è capitato spesso di sentire discorsi antiziganisti in ambienti che si dichiaravano inclusivi, perché quell'inclusività finiva appena bisognava avere uno sguardo più ampio, vedere un po' più in là e analizzare anche se stessi, decostruirsi, appunto. Nel momento in cui veniva chiesto se non di capire, almeno di ascoltare un modo di vivere la vita diverso, una storia diversa in una battaglia comune per l'autodeterminazione. Per fare un esempio, piccolo ma significativo, ci sono molte persone all'interno di questi ambienti che si chiudono totalmente quando viene chiesto loro di non utilizzare il termine 'zingari' perché per noi offensivo. Una richiesta così semplice che viene negata è segno che ancora non c'è la condizione in cui si possa sviluppare un confronto, che siamo ancora allo step prima, quello in cui ci si dovrebbe sedere e, semplicemente, ascoltare una voce per così tanto tempo silenziata. Io spero che anche il libro possa essere occasione per porsi nuovi interrogativi e cercare risposte attraverso i membri delle comunità rom e sinte. Ci sono in ogni città d'Italia, ma spesso sono tagliate fuori da ogni discorso di cambiamento. Spero che questa sia un'occasione per creare nuovi spazi e invitare queste comunità locali perché noi ci siamo, ci siamo sempre stati e combattiamo".