“
Della morte non ho paura, del dolore sì”. Parola di
Michela Murgia che, nonostante il cancro “questo è il tempo migliore della mia vita”. Dopo aver raccontato pubblicamente della sua lotta contro un tumore, oramai al quarto stadio, e che le lascia ancora pochi mesi da vivere, la scrittrice sarda torna a raccontare, questa volta su “Vanity Fair”, altri dettagli inediti della sua
battaglia contro la malattia.
La scrittrice sarda Michela Murgia (Ansa)
E lo fa partendo dal Capodanno 2021, quando è stata ricoverata in ospedale in
terapia intensiva. “Ero in condizioni di semi incoscienza, convinta di morire e con i medici convinti che sarei morta” dice ricordando quei giorni. “In realtà, sono sopravvissuta alla terapia intensiva per una r
eazione straordinaria del corpo alle prime cure di rianimazione e a due operazioni di svuotamento d’acqua dei polmoni” aggiunge. Quindi, con coraggio ammette: “Quando mi sono ripresa e sono uscita, quando è arrivata
la diagnosi del tumore era una buona notizia, perché avevo ancora tempo: non sarei morta in terapia intensiva”.
La scrittrice di origine sarda ha un carcinoma renale al quarto stadio con metastasi nei polmoni, nelle ossa, al cervello
Il cancro e una vita ancora piena di sogni
La scrittrice spiega poi nei dettagli la notizia del tumore. “Quella notizia non voleva dire cancro, voleva dire tempo. Non ho paura della morte. Ho paura del dolore”. La 51enne si dichiara più preoccupata per i suoi affetti più cari che per se stessa. “Se si ammalasse uno dei miei figli, non sarei così serena” ammette. E tornando al momento in cui ha saputo del cancro, dice: “In quel momento non si erano ancora presentate né metastasi ossee né cerebrali. È gestibile anche questo stadio,
perché posso vivere, posso scrivere”.
Il desiderio della scrittrice: “Se oggi mi dicessero ‘Cos'è che vuoi ancora fare?’ L'ultima cosa che voglio fare è andare in Corea del Sud a incontrare i Bts”
E, da quando lo ha saputo non ha sprecato nemmeno un attimo della sua vita: “In questo anno e mezzo ho scritto, sono andata in America da Alessandro, mi sono goduta le sfilate, sono andata sull’Orient Express… E tuttora ogni mattina mi sveglio pensando che ci sono persone che hanno la mia malattia e che
non hanno la mia qualità di vita”. Ben consapevole del suo stato di salute, la scrittrice non smette di vivere e sognare. “Se oggi mi dicessero ‘Cos'è che vuoi ancora fare?’ L'ultima cosa che voglio fare è andare in Corea del Sud a
incontrare i Bts”, gli artisti lì più noti con oltre 44,9 milioni di dischi venduti. E aggiunge: “Probabilmente non ci andrò, ma i
Bts verranno a me. Non si può sapere. È
l'ultimo desiderio dei desideri, come nella ‘Storia infinita’ quando ti rimane l'ultimo da esprimere e non trovi più la strada per tornare a casa. È forse giusto che rimanga non soddisfatto”.
La scrittrice: Ho scelto come anello nuziale una rana ad altorilievo perché è un animale di terra e di acqua, sempre pronto al salto, quindi al cambiamento, rappresenta bene la queerness in natura"
Murgia, la famiglia queer e l’anello nuziale con la rana
Dai sogni alla realtà. Ovvero il matrimonio con
Lorenzo Terenzi. “Ho scelto come anello nuziale
una rana ad altorilievo perché è un animale di terra e di acqua, sempre pronto al salto, quindi al cambiamento, rappresenta bene la queerness in natura” racconta. A proposito delle relazioni familiari, aggiunge: “
Mi piace definirla ibrida, non voglio chiamare la mia famiglia non convenzionale, perché sono sicura che nella realtà queste famiglie siano già diffusissime: non esiste un nome per questa creatività degli affetti”. Quindi spiega bene il concetto di 'casa'. “Basta dire famiglia tradizionale, quella composta da mamma, papà e due bambini è
un'invenzione degli anni Sessanta. Nei dialetti la parola cugino e fratello è spesso comune. Perché si cresceva tutti come figli”.
Insieme al futuro marito Lorenzo Terenzi (Instagram)
Secondo la scrittrice non è nemmeno quella la
famiglia queer: “Perché anche quella tipologia ha il sangue come fondamento. E tutte le famiglie che hanno
il sangue come fondamento sono famiglie di natura patriarcale”. Secondo lei l’idea di famiglia queer è quella che basa le relazioni sullo Ius Voluntatis, sul
diritto della volontà. “Perché la volontà deve contare meno del sangue?” di domanda. E aggiunge: “Perché se due o tre amiche anziane rimaste sole o vedove, coi figli già andati a vivere altrove, vogliono andare a vivere insieme, condividere le spese, la casa, avere la reversibilità pensionistica, decidere l'una per l'altra se una non può più decidere. Perché non possono farlo dentro una scatola legale,
un patto sociale?” La 51enne, poi ricorda che “in Germania già esistono queste proposte di legge, noi invece stiamo ancora a discutere
quale coppia è più coppia delle altre. E chi l'ha detto che debbano essere solo due genitori?”. E, così porta come esempio la sua
famiglia queer: “Per esempio io, Claudia e suo marito e il padre di mio figlio Raphael siamo quattro ed esercitiamo una co-genitorialità diversa, mutevole, perché negli anni abbiamo dovuto cambiare”. Ricordando che “noi cambiamo”, la donna si chiede “
perché non devono cambiare i modelli di riferimento? Cosa vuol dire che c'è nucleo familiare migliore e un peggiore? È la norma applicata alle relazioni che non regge. E genera dolore. Tutto quello che sfugge a questi legami viene considerato atipico ma è molto più tipico di quanto non lo sia”.