“L’interesse è una cosa fondamentale, essendo una malattia rara c’è poca conoscenza ma anche poco interessamento”. Alessandra, 49enne di Treviso, è affetta da osteogenesi imperfetta di tipo 1. In questo momento, ci racconta, ci sono diversi studi in essere su questa patologia: una speranza per il futuro, ma serve anche maggiore attenzione da parte della società, che non vede quello che provano e che tende ancora a sminuirlo.
La sua è una disabilità ‘invisibile’, lei non ha mai avuto fratture significative (spesso quando si sente parlare di osteogenesi si pensa alle cosiddette ‘ossa di vetro’) ma da adulta ha iniziato a soffrire di dolore cronico, uno dei sintomi meno conosciuti ma più invalidanti. “Quando dico che ho la forma più lieve di OI mi riferisco a una vecchia definizione. Perché ho comunque dovuto cambiare gran parte della mia vita a causa di questa patologia. Invece ci sono persone che hanno forme più gravi quanto a disabilità visibili ma non hanno dolori”. Solo recentemente, grazie al confronto con altre persone con OI, la donna ha scoperto che la sua è un’esperienza comune e ha potuto dare una spiegazione e una voce ai suoi sintomi.
La ricerca
La testimonianza di Alessandra, infatti, rispecchia perfettamente anche i risultati italiani dell’IMPACT Survey, la più ampia raccolta di dati mai realizzata, che è stata portata avanti da Osteogenesis Imperfecta Foundation (OIF), Osteogenesis Imperfecta Federation Europe (OIFE) e Mereo BioPharma. Lo scopo è indagare l’impatto complessivo dell'osteogenesi imperfetta, che colpisce 1 persona ogni 15-20mila nascite (in Italia si stimano circa 3-4.000 persone): sebbene la fragilità ossea e il rischio di fratture siano tra le caratteristiche più comuni, l’OI colpisce l’organismo nel suo complesso e comporta una moltitudine di sintomi e manifestazioni cliniche differenti. Inoltre lo studio ha fotografato le conseguenze dell’OI sulla vita professionale e personale, oltre che l’impatto a livello economico, con le spese dei pazienti italiani che risultano essere le più alte in Europa.
Qual è stato il suo percorso fino alla diagnosi? Ci sono stati campanelli d’allarme?
“I sintomi nel mio caso si sono presentati in età adulta: nel 2009 ho iniziato ad avere dei problemi di dolore molto intenso alla schiena e all’anca destra. Ho fatto controlli ed esami che però non evidenziavano niente, dei dolori molto forti a livello clinico non c’era riscontro. Da lì è iniziata una trafila durata sei anni prima di avere una diagnosi, che è arrivata nel 2015. Secondo me perché non ho mollato io: mi avevano parlato di altre patologie, tutte più legate alla sfera psicologica che a una vera problematica fisica. Ma siccome mi conosco sapevo che dovevo continuare fino ad arrivare alla risposta esaustiva per me”.
Quindi come c’è arrivata?
“Grazie ad un endocrinologo dell’Università di Padova. Quando mi ha visitata e ha visto gli esami mi ha detto: ‘Lei ha l’osteogenesi imperfetta di tipo 1, che spesso non viene diagnosticata perché è la forma più lieve’. Abbiamo poi fatto dei test genetici di approfondimento per avere riscontro e così è stato. Da lì ha iniziato un percorso per a curarmi. O meglio, per la mia patologia non esiste una cura, però ci sono delle terapie che possono supportarci nella vita quotidiana, come ad esempio i bifosfonati per l'osteoporosi, che vengono comunemente usati per chi ha problemi di bassa densità ossea. Ho iniziato a usare questi farmaci, la vitamina D e soprattutto ho iniziato a dare un nome a quello che era il mio problema”.
L’aspetto del dolore così impattante nella vita di tutti i giorni come l’ha affrontato?
“Ho iniziato un altro percorso di ricerca. Dal 2015 ho iniziato veramente a capire che cos'era il dolore nella mia patologia, partecipando a giugno 2023 a una convention a Stoccolma dell'OIFE (Osteogenesis Imperfecta Federation Europe), che si occupa appunto di divulgazione e anche di supporto alle varie associazioni nazionali. All’evento si è parlato con ricercatori e medici provenienti da tutto il mondo del dolore nell’OI dell’adulto. Questo perché all'ennesima visita specialistica che avevo fatto, in questo caso con un reumatologo, quest’ultimo mi aveva detto che i miei dolori non erano assolutamente connessi alla mia patologia. Era il suo parere, per tutti gli altri questa problematica è risultata essere estremamente importante per la nostra comunità. Io, ho la forma più lieve però ci sono forme più importanti e visibili: le persone hanno bassa statura, hanno innumerevoli fratture, problemi polmonari, cardiaci e sono, nel 90% dei casi delle forme più gravi, in sedia a rotelle”.
C’è poi l’Impact Survey a cui ha partecipato anche lei…
“Sì ha coinvolto oltre 2mila persone, che è una quantità enorme per una patologia rara. Questa survey ha evidenziato che per tutti noi il problema principale è il dolore cronico, sia dolore osseo o, come nel mio caso, muscolo tendineo. Perché questa patologia è una mutazione del collagene di tipo I che non si trova solo nelle ossa ma in parte dei tessuti del nostro corpo e questo tipo di infiammazioni sono comuni”.
Alessandra possiamo dire che il merito è anche della sua caparbietà se oggi ha questa consapevolezza?
“È stato totalmente per la mia caparbietà. E un’altra cosa che non viene mai detta è che io avevo anche la disponibilità economica per farlo. Ma non tutti finanziariamente hanno la possibilità di affrontare una cosa come 10 anni di ricerche e cure a spese proprie. Ancora oggi il nostro sistema sanitario non è strutturato in modo da essere vicino a chi ha patologie rare. Perché anch'io oggi, nonostante abbia una diagnosi, l'unica esenzione ‘vera’ che ho è quella alla visita annuale di controllo e agli esami del sangue. Ma in realtà ‘sopravvivo’ facendo tanta fisioterapia che mi devo pagare in toto. E se non te lo puoi permettere la tua salute peggiora”.
Se il dolore cronico è invalidante a livello fisico, che tipo di conseguenze ha a livello psicologico, sul lavoro, sulle relazioni con le altre persone?
“Porta a stanchezza costante, affaticamento, a difficoltà nel dormire e ad avere un sonno riposante. E ci sono poi delle scelte di vita che si è costretti a fare. Nel mio caso ho avuto il supporto di mio marito ma altre persone non vivono questa situazione. Spesso si parla anche di problemi di salute mentale e devo dire che anche io a volte sono provata. In generale sono una persona abbastanza determinata però ci sono stati momenti molto difficili, anche perché il dolore è più tipico nelle donne e soprattutto dopo una certa età. Siamo proprio fortunate…”.
OI e dolore cronico come si conciliano con il ciclo mestruale e la menopausa?
“Io non posso permettermi di entrare in menopausa. Perché questa vuol dire avere una densità ossea ancora inferiore a quella che ho e maggior rischio di fratture. La mia ginecologa fa parte di un’associazione per il dolore pelvico cronico, un dolore per cui noi donne non veniamo credute e spesso c’è la percezione che ci lamentiamo e basta.
La menopausa fino a qualche anno fa veniva fatta vivere regolarmente alle donne con OI. Mentre la mia dottoressa mi ha imposto di prendere la pillola fino a 51 anni, quando ci fermeremo e capiremo come agire. Ma ancora tanti ginecologi non fanno così”.
C’è un gesto comune o un'attività che ha dovuto interrompere a causa dell’OI?
“Nel mio caso ho iniziato ad avere grosse difficoltà a dormire, a riposare bene e ho dovuto imparare a prendermi dei tempi e degli spazi diversi. Ho rinunciato a un lavoro che amavo per trovare qualcosa che mi desse la possibilità di continuare ad avere un impegno che però fosse meno gravoso. Ho dovuto rinunciare al pilates e allo yoga, e le camminate che facevo adesso sono piccole passeggiate, porto fuori il cane”.
Se dovesse dare un volto al dolore lo vedrebbe più come nemico da combattere o come un compagno che ormai si porta dietro?
“Non lo vedo né come una cosa estranea né come nemico, più come ospite direi. Qualcosa che c’è e con il quale ho imparato ad avere un rapporto di convivenza, rispettando le sue esigenze e le mie. Non voglio considerarlo nemico perché l’accezione negativa di queste cose credo che non porti a niente di utile”.
A livello psicologico ha più impatto il timore personale che possa accaderle qualcosa o il comportamento magari di riguardo di chi conosce la sua condizione?
“In realtà sono pochissime le persone che capiscono davvero cosa ho, anche se ho tentato di spiegare. Ma in realtà può capirlo davvero solo chi ti vuole bene, perché deve empatizzare con te. Quelle che sono state le persone importanti nella mia vita, a partire da mio marito e da una cerchia ristretta di amici che davvero posso considerare tali, non hanno nessun problema. Il resto del mondo, al contrario, non capisce, non vede e non crede.
Dal punto di vista mio mentale è più impattante la paura di potermi far male e di quello che può succedermi in futuro, perché tante persone con l’OI di tipo I hanno poi avuto problematiche più gravi e ne conosco molte che oggi sono in sedia a rotelle. Non è facile da accettare, non ci pensi tutto il tempo ovviamente e vivi la tua vita, non è detto che succeda; ma c’è questo alone di paura che circola dentro di me e cambia di intensità a seconda dei momenti. E vivo tutto con molta più ansia, non c’è più la leggerezza nel fare le cose che ti piacciono e ti fanno stare bene”
Dove trova la forza, la speranza?
“Principalmente nel fatto che ho sempre creduto molto nella conoscenza, nell’educazione, nel sapere le cose. Da quando ho conosciuto OIFE ho iniziato a studiare e mi sono ‘diplomata’, prima nella mia comunità, ad un corso annuale che si chiama EUPATI per diventare Paziente esperto. Un corso molto importante per il mio percorso di patient advocacy, perché voglio continuare a lavorare per la mia comunità, non per me ma per chi verrà, per chi è bambino o ragazzo oggi. Vorrei che il mio impegno, il mio studio , possa dare una voce a chi oggi non ne ha per tanti motivi. Questo è quello che mi dà la forza di guardare avanti e continuare a pensare positivamente”.