Schwa, asterisco e desinenze femminili. Il dilemma della lingua italiana

Domenica 19 maggio è riniziato “Dilemmi”, programma su Rai 3 dello scrittore Gianrico Carofiglio. Ospiti della prima puntata Vera Gheno e Emanuele Trevi, che discutono di come la lingua si stia adattando ai cambiamenti sociali

di Redazione Luce!
20 maggio 2024
Gianrico Carofiglio conduce "Dilemmi". Ospiti Vera Gheno e Emanuele Trevi

Gianrico Carofiglio conduce "Dilemmi". Ospiti Vera Gheno e Emanuele Trevi

“Cambiare implica anche una riflessione sulle parole”. Inizia così la prima puntata della terza edizione di “Dilemmi”, il programma ideato e condotto su Rai 3 dallo scrittore Gianrico Carofiglio.

Sei appuntamenti in seconda serata, a partire da quella andata in onda domenica 19 maggio, per affrontare ogni volta una questione magari ingarbugliata, di difficile soluzione: un ‘dilemma’ appunto, che si presta a diverse interpretazioni. Quello di ieri sera riguardava ad esempio la “desinenza” delle parole, quindi un tema attuale quanto multiforme come quello del linguaggio, delle convenzioni linguistiche e della possibilità di stravolgerle per far fronte alle richieste di cambiamento sociali. 

Con la linguista Vera Gheno e lo scrittore Emanuele Trevi, ospiti della puntata, si è parlato di genere delle desinenze per indicare le professioni al femminile, dell’uso sovraesteso del maschile per facilitare la comprensione reciproca, se questa sia ancora la soluzione più pragmatica e utile o se viceversa sia il precipitato di una discriminazione di genere. "Il linguaggio rispecchia l’ideologia degli assetti sociali e delimita lo spazio di ciò che possiamo pensare e financo immaginare – aggiunge nel monologo introduttivo Carofiglio –. Ragionare sul linguaggio dunque è fondamentale per decifrare la nostra resistenza o la nostra attitudine al cambiamento e capire quanto il femminile sia ancora screditato, anche dalle donne. Oriana Fallaci – spiega – si definiva scrittore, non scrittrice; numerose politiche preferiscono farsi chiamare ‘ministro’, innumerevoli professioniste rifiutando di definirsi ‘avvocata’, ‘magistrata’ o ingegnera’”.

Professioni al femminile e nuove desinenze

Ma perché queste resistenze? Non si tratta di accettare neologismi, come evidenzia giustamente lo scrittore, ma le professioni al femminile sono “forme previste dalla lingua italiana anche se poco usate, semplicemente perché non esistevano donne che le esercitassero”. Lavori e occupazioni in cui le donne sono state marginali, o addirittura assenti, come quelle di potere, di responsabilità. “Se i vocaboli al femminile ci sembrano ridicoli questo è un sintomo della cultura che c’è dietro, di cui sono un riflesso”. 

Usiamo il maschile per le professioni per semplificare. È per questo che cambiare di punto in bianco le convenzioni linguistiche può dar adito a resistenze, a opposizioni, per non creare confusione. E siamo già oltre, perché negli ultimi anni si parla anche “di nuove desinenze per dare rappresentanza a chi non si riconosce né nel genere maschile né in quello femminile. Per rispondere a questa esigenza in numerosi contesti e specialmente fra le nuove generazioni è sempre più diffuso l’uso dell’asterisco o, in alternativa, dello schwa. Si tratta – quest’ultimo – di una vocale intermedia usata in alcune lingue ma non nell’italiano, fatta eccezione di alcuni dialetti”, dice il conduttore. C’è un problema però: come si pronunciano? “Non è chiaro, se non a costo di uno sforzo che può apparire innaturale o secondo alcuni persino grottesco”, ammette.

Inclusione e visibilità

Ma è un tentativo doveroso di inclusione e democratizzazione della lingua, perché promuovere una comunicazione equa e chiara, che rifletta valori di rispetto reciproco, è un’esigenza fondamentale per una società che ha l’ambizione di essere accogliente. “Non una battaglia, che prevede per forza nemici, – afferma la sociolinguista Vera Gheno –. Io parlo di una rivendicazione o una provocazione o un’istanza. Secondo me se quando si cerca di creare una società più attenta ai bisogni delle varie minoranze si sta cercando di cambiare la mentalità. E non parlo di società inclusiva perché quest’ultimo è un termine problematico. Io seguo la lezione di Acanfora, parlo di linguaggio ampio (che fa attenzione alla varietà – in inglese diversity – e cerca di accogliere le istanze delle varie persone che fino a oggi non hanno avuto voce in capitolo anche per il mondo in cui venivano chiamate all’interno della società), una questione legata al fatto che il tessuto della nostra società sta cambiando e tutta una serie di parti della società erano naturalmente marginalizzate ora stanno conquistando una voce, una sacrosanta visibilità”. Quindi a una visibilità linguistica più ampia corrisponde, secondo lei, maggior visibilità sociale.

“Io spero di morire prima che si affermino delle cose che sono quotidiane – replica lo scrittore Emanuele Trevi, che dice la sua dal punto di vicsta di chi, con le parole, ci lavora –, perché è un mostro senza testa in cui ognuno porta il proprio mattoncino nel muro di idiozia. L’altro giorno pensavo: zoppo si può ancora dire? Il dubbio è sintomatico del clima che viviamo”. 

La differenza socioculturale 

Guardando al tema della puntata, quello delle professioni, l’uso generale del maschile riflette il fatto che molte donne non potevano, in passato, esercitarle. Il problema c’è nei ruolo apicali o prettamente maschili: “È una questione di abitudine, perché infermiera sì e ingegnera no? – si chiede Gheno –. Come maestra e ministra la differenza non è linguistica ma di attitudine socio culturale. Al di là di definire la nostra società più o meno di stampo patriarcale, sicuramente è una società che è stata abituata a essere androcentrica, la storia e la lingua sono a misura d’uomo, maschio. Abbiamo oggi una decina di anni di studi che dimostrano che per quanto noi impariamo a considerare il maschile sovraesteso come neutro, il nostro cervello in prima istanza lo decodifica come maschile e solo dopo come neutro. Questo, sorpattutto in cervelli in evoluzione, nei giovani, potrebbe creare dei pregiudizi cognitivi”, chiosa Vera Gheno.

“La lingua è come una specie di animale addormentato quando sta bene – riprende la parola Trevi –. Il fondamento della linguistica è che non esista nessuna connessione tra il suono, il segno e la cosa significata. Nessuna cosa che diciamo ha un’equivalenza, se non arbitraria, nel mondo. Io queste cose le odio: se una persona mi scrive sui social usando l’asterisco, lo schwa, fa qualcosa che non mi piace, si sente migliore perché sta facendo una cosa per il mondo. Del tutto inutilmente, secondo me. Allora io lo faccio apposta a dire ‘cari amici’. [...] Il muro che mette davanti uno schwa tra me e un enunicato va tenuto presente, perché la maggior parte delle persone al mondo la pensa così”.

Il "Dilemma della desinenza"
Il "Dilemma della desinenza"

L’uso dello schwa: inclusivo o escludente?

"Emanuele parla da scrittore, da amante della lingua – spiega la sociolinguista –. Ribadiamolo: la letteratura deve rimanere sempre libera di esprimere tutto, il sublime ma anche le cose comuni. Uso anche io la metafora dell’animale per parlare della lingua, un animale goffo e lento – non dormiente – perché una delle questioni centrali del cambiamento linguistico, come quello sociale, è che è lento per definizione. Quando si forzano i tempi si ottengono possibili mostri”. Lo schwa, se è motivato che ci sia, allora va utilizzato, ma perché dovrebbe essere in un romanzo storico, in un dialogo di Platone? E se lo trovo e non so come si pronuncia non ci si deve arrendere, lo si può cercare. Anche Gheno sottolinea l’importanza della comprensibilità del testo, richiamandosi all’insegnamento di De Mauro: “Sono consapevole che, essendo un termine sperimentale, potrebbe allontanare le persone, non lo userei mai in un testo istituzionale ad esempio. Una delle case editrici con cui pubblico invece lo usa in maniera rarefatta nella collana di saggistica. Io cerco di usare il meno possibile il maschile sovraesteso, ma non uso mai lo schwa quando parlo. Potrei”. 

Non imposizioni ma possibilità

Non è d’accordo Trevi, che sostiene che l’arte non possa essere “l’eccezione scorretta” rispetto a ideologie – come ritiene sia quella dell’uso di desinenze di genere più eque e inclusive – che opprimono la libertà umana. “Io uso ‘cari mamma e papà’ perché è la mia lingua, la mia maniera di esprimermi, la mia affettività, la difendo con i denti. Ma non voglio essere sottoposto a quello che Kundera chiama lo judo morale, che costringe l’altro a prendere posizione. Io agli occhi di qualsiasi seguace di questa follia sono connotato come conservatore, di destra. È come se venisse ridato significato a qualcosa che a mio parere esiste nell’inconsapevolezza della lingua”. Si tratta, insomma, di operazioni artificiose che prevedono una componente autoritaria, magari non immediatamente visibile. 

Gheno, a questo, ribatte infine che “c’è una scarsa conoscenza dell’origine di questi modi di esprimersi. Questi modi di scrivere, soprattutto, e in seconda battuta di parlare, nascono all’interno delle comunità Lgbt+ almeno 15 anni fa e rimangono all’interno di questi contesti in maniera pacifica fino a 3 o 4 anni fa, quando la questione tracima e diventa discussione di tutta la società. Io sono contraria a qualsiasi imposizione e so che le imposizioni non funzionano, quindi l’idea del linguaggio ampio deve essere quella di un linguaggio che ti può aiutare a vedere le varie possibilità, non come bisogna parlare ma come si può parlare”.

“Il linguaggio inclusivo costituisce un limite, una sfida, un fastidio, un a possibilità, altro?” chiede Carofiglio a Trevi. “Io vorrei puntare tutte le mie carte sul rovescio della cosa, invitando non a tollerare il maschile sovraesteso ma a considerarlo una delle tante magie del linguaggio. Altre cose dal neutro sono capitate al femminile. Stare attenti a non diventare come i pazzi nel cortile del manicomio che con lo spazzolino lavano i denti alla sega”. 

La chiusura della puntata è affidata ai musicisti Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura, che si sono esibiti su brani della tradizione italiana e interazionale legati al ‘dilemma’ di puntata.